È francamente insopportabile questa specie di “cordoglio” levatosi attorno al “blitz” con cui, da un giorno all’altro, il francese Xavier Niel è “emerso” nel capitale di Telecom Italia come azionista al 15,14%. Ed è irritante lo sconcerto col quale si sottolinea come due gruppi transalpini ormai controllino, insieme anche se parrebbe non di concerto, più del 35% del capitale di Telecom, oltre un terzo del capitale.
Telecom si chiama ancora “Italia” per convenzione, ma in realtà, per colpa di una sfilza di imbarazzanti insipienze che purtroppo il governo Renzi non ha voluto o saputo sanare – e sì che avrebbe potuto! – non è più italiana dal 2007, e forse sarebbe diventata comunque straniera anche se non ci fosse stato lo “scippo” istituzionale con cui il governo Prodi, d’accordo con Mediobanca, soffiò in quell’anno il controllo della Pirelli di Tronchetti.
Dal 2007 a qualche mese fa in Telecom ha spadroneggiato un socio straniero, la spagnola Telefonica, “coperto” da Mediobanca che aveva al suo seguito passivo le Generali e al seguito concorde Intesa San Paolo. Si era erroneamente ritenuto che, con Telefonica, Telecom potesse sprigionare sinergie: in realtà l’unica sinergia che stava a cuore al colosso spagnolo era quella di bloccare l’espansione della partecipata italiana in Sudamerica, dove aveva interessi prevalenti, e magari diventare socio di controllo unico (scalzando dalla holding Telco gli italiani), ma a patto di spendere pochi soldi.
Il peso di Telefonica ha imbrigliato la visione strategica di Franco Bernabè, il presidente, che qualcosa di nuovo avrebbe voluto fare, ma non è mai stato messo nelle condizioni di farlo. L’attuale presidente Giuseppe Recchi, che a sua volta ha una lucida visione del mercato delle telecomunicazioni del futuro, è entrato in azienda puntando sulla possibilità che dopo l’uscita di Telefonica e di Mediobanca l’azionariato restasse diffuso, sul modello delle “public company” americane a lui tanto care. Ma evidentemente, con le modeste dimensioni di Telecom, questo scenario non era possibile: e infatti oggi nel capitale della ex Sip ci sono ben due soci forti di controllo. Per far cosa siano entrati – se solo speculazione o business di lungo periodo – non è ancora chiaro. Ma certamente sono loro che in futuro potranno, volendo, comandare.
La Stet con dentro Telecom, un’azienda bellissima, all’avanguardia nel mondo per brevettazioni, piena di soldi, è stata privatizzata malissimo nel ‘97 dal governo Prodi (ministro Ciampi, ahimè per tanti altri versi benemerito ma non per questa prodezza) ricavandone la misera di 14 miliardi di euro ed è stata affidata alle mani di ricotta di un nocciolino pseudo-duro incapace di reagire all’Opa di Colaninno e Gnutti.
Questi ultimi, insensatamente (anzi, interessatamente) benedetti dal Pd di Massimo D’Alema, hanno, sì, fatto una bella operazione finanziaria, la più ricca Opa mondiale del momento: peccato che l’hanno fatta sulla pelle dell’azienda, sfruttandone la pingue cassa e tarpandone la capacità d’investimento. L’azienda non si è mai più sostanzialmente ripresa da quella batosta, lo stesso Tronchetti – la cui gestione ha diviso gli animi tra detrattori ed estimatori, ma certamente aveva una direttiva strategica – nel 2007 era a un passo dal sottoscrivere un accordo epocale con Sky che avrebbe portato a Telecom quell’integrazione con i media tuttora invano cercata, ma che in compenso avrebbe anche dato a un colosso straniero un peso comunque determinante nell’azionariato.
Recentemente la situazione di Telecom è migliorata, sia grazie a una gestione opaca ma accorta che – soprattutto – al crollo dei tassi d’interesse. Peccato che questa migliorata realtà non sia sfuggita agli speculatori, ed eccone due spuntare come funghi nel capitale: Bollorè, il patron di Vivendi, certo, ma anche un uomo dall’irsuto pelo sullo stomaco, capace di trarre il grosso dei suoi ricavi dalla gestione della logistica nei porti di tutta l’Africa del Nord e occidentale, un mestiere da avventuriero con tanto di milizia privata e sgherri in ogni dove. E Niel, un altro personaggio celebre per i suoi blitz più finanziari che industriali.
Ma perché anche il governo Renzi ha colpe? Semplice, perché anziché ingarbugliarsi con la Cassa depositi e prestiti in un inverosimile progetto di rete a banda ultralarga – non si è mai capito se alternativa o complementare a quella che sta facendo Telecom – non doveva far altro che nazionalizzare la rete Telecom, per mettere in salvo – come è stato ben fatto nei casi della rete elettrica di Terna e della rete del gas di Snam – l’infrastruttura più strategica di tutte per l’economia digitale, che deve essere sana e forte per il bene del Sistema-Paese, lasciando in balia dei corsari di Borsa solo l’azienda di servizi, un peccato comunque ma almeno innocuo rispetto alla rete. Macchè. E adesso, imbarazzato, non sa che dire, né tantomeno che fare.
Prendiamone atto: un altro pezzo dell’economia del nostro Paese è passato sotto bandiere straniere. Non credete a chi dice che nelle multinazionali conta la sede del quartier generale e la cittadinanza dei capi, più che la bandiera dei soci. Non è vero. Innanzitutto perché Telecom Italia non è una vera multinazionale; e poi perché i soci stranieri fanno i loro interessi, anche oltre e contro quelli del Paese in cui operano. È andata sempre così, la storia anche recente della finanza internazionale ne fornisce milioni di prove.