Chi sperava che fossero “sleeping partner”, soci dormienti, si sta accorgendo di essersi sbagliato. I cinesi della State Grid International Development Limited (Sgid), proprietari del 35% di Cdp Reti (pagato ben 2,1 miliardi di euro) non hanno alcuna intenzione di dormire. E incalzano il socio di maggioranza, la Cassa depositi e prestiti, affinchè faccia di più lungo due direttrici: la redditività e la crescita del perimetro d’attività.
La redditività perché i cinesi, scarpe grosse e cervello fino, hanno ben capito che il pay-out di Terna e di Snam dipende quasi unicamente dagli accordi con i Regolatori pubblici, le authority cioè, che determinano i margini ai quali le due grandi reti nazionali possono farsi pagare il servizio dagli operatori. E i cinesi sostengono, ufficiosamente, che ci sarebbero margini di miglioramento conseguibili. E poi c’è l’ambito delle iniziative d’imprese di Cdp Reti. Lo sviluppo delle Smart Grid, dentro Terna o anche al di fuori; l’acquisizione di ulteriori pezzi di rete del gas; ulteriori mosse internazionali, come nei primi anni di Terna. E poi, e poi…
Poi torna in ballo con prepotenza il tema dell’espansione delle reti controllate in Italia: la rete ferroviaria, che in occasione dell’annunciato progetto di privatizzazione delle Fs verrà mantenuta al 100% di proprietà pubblica, e allora perché non “trasferirla” sotto Cdp Reti? Ma anche e soprattutto la rete di Telecom Italia. E in particolare di Telecom Italia Sparkle, gallina dalle uova d’oro del gruppo telefonico, forte di una tela di cavi lunga 450 mila chilometri tra Europa, America Latina e Mediterraneo, su cui corrono dati e voce gestiti da Telecom Italia e da altri 500 operatori internazionali circa, che devono depositare un ricco pedaggio per transitare su quelle autostrade informatiche.
Ai cinesi queste reti fanno gola. E siccome sanno di non poterle comprare direttamente, attraverso una presenza così autorevole (il codice civile italiano assegna al socio col 35% del capitale il veto nelle assemblee straordinarie!), vorrebbero che per lo meno entrassero nel perimetro di Cdp Reti. Per la precisione, i tre asset più pregiati del portafoglio Sparkle sono i cavidotti sottomarini che collegano Italia a Grecia, Turchia, Israele e Nord-Africa.
Ma c’è di più. Il consiglio d’amministrazione di Telecom Italia che il 15 dicembre delibererà l’ingresso di 4 amministratori designati da Vivendi al vertice della società avrà il sapore di un suggello. Sancirà infatti il passaggio del baricentro di potere su Telecom per la prima volta nelle mani di un gruppo straniero: per la prima volta perché ai tempi, funesti, del predominio di Telefonica, gli spagnoli avevano ottenuto la maggioranza relativa (42%) del capitale di una holding, Telco, che controllava il 22% di Telecom, ma dentro Telco da soli Cesare Alierta e i suoi uomini spagnoli non potevano decidere niente senza il consenso dei soci italiani, Mediobanca (che glielo dava sempre, ma per scelta), Generali e Banca Intesa. Quindi di fatto per quasi otto anni Telefonica ha potuto esercitare interdizione su Telecom, non gestione. Ora è diverso: Vivendi comanda direttamente sul 20%, e non deve dar conto a nessuno di come voterà in assemblea al prossimo rinnovo del vertice.
E dunque, agganciato come un vagone al dibattito sul futuro di Cdp Reti sollecitato dai cinesi, non c’è solo la Sparkle ma anche tutta la rete di Telecom Italia, quella sulla cui evoluzione in fibra ottica Giuseppe Recchi ha puntato (per come ha potuto, nel suo sforzo encomiabile ma solitario di ridare linfa all’azienda).
Ha senso che mentre France Telecom è controllata dallo Stato francese e contiene in pancia la sua rete e Deutsche Telekom è al 100% dello Stato tedesco, Telecom Italia debba restare al 100% privata, con dentro le preziose reti, internazionale e nazionale? Quale disegno coerente di politica industriale può mai essere quello di un governo che si preoccupa di tenere al 100% pubblici i binari dei treni e lascia andare a privati stranieri i binari del sapere e dell’informazione?
Nessun disegno. Come nessun disegno c’è stato, nella concitata stagione delle nomine gestita da Matteo Renzi subito dopo aver preso la presidenza del Consiglio, nella scelta di Marcello Messori e Michele Mario Elia per le poltrone di presidente e amministratore delegato delle Ferrovie, senza uno straccio di concertazione programmatica e di visione tra i due e, peggio ancora, senza che nessuno dall’alto si sia preoccupato di “sparigliare” tra le loro divergenze, prendendo le parti dell’uno o dell’altro, come si conviene che faccia qualunque azionista che si rispetti in casi del genere.
Fatto sta che il mantenimento della rete ferroviaria in mani pubbliche, ma al 100% e probabilmente sotto la Cassa, da una parte accoglie l’auspicio di Elia, che non voleva alcuna scissione tra Ferrovie-servizio e Ferrovie-infrastruttura; ma dall’altra accoglie l’auspicio di Messori che voleva l’allontanamento gestionale della rete dai treni. Ragione o torto che ciascuno dei due si siano visti riconoscere, fatto sta che il governo li ha cacciati entrambi, pur avendoli entrambi da poco nominati, due anni e mezzo in un mondo come quello ferroviario sono pochi. Strano. Ma la lotta sul futuro delle reti genera continuamente nuove stranezze.