Perché il titolo Telecom è salito in Borsa alla notizia della possibile integrazione tra Wind e H3G? Non per pura euforia di mercato al rimescolamento del settore, non c’era bisogno di questa ipotesi di nozze – peraltro già vecchia di mesi – per dimostrare che “qualcosa si muove” nel mondo delle telecomunicazioni. Nossignore: stavolta, dietro la reazione borsistica c’è un ragionamento preciso e rilevante, per quanto trascurato dagli analisti finanziari che di solito ignorano gli aspetti sociali e macroeconomici dei fenomeni borsistici.
Se Wind e H3G si fonderanno – a prescindere dal dettaglio irrilevante sul chi comprerà l’altro – il mercato italiano della telefonia mobile vedrà unirsi le due compagnie che praticano i prezzi più bassi. Ovvero, le vere portatrici della concorrenza. E la principale sinergia che il soggetto nato dall’aggregazione potrà utilizzare sarà appunto l’aumento di questi prezzi più bassi. Scomparendo dal mercato le offerte più aggressive, i consumatori saranno di fronte alla scelta: o telefonare di meno (inverosimile, l’uso dello smartphone è uno psicofarmaco…) o pagare di più. E tutti i prezzi medi del mercato risaliranno, non solo quelli praticati dalla nuova compagnia aggregata, ma anche dalle altre due, Vodafone e Tim, non più costrette a “non esagerare” nella gestione del loro listino. In poche parole: pagheremo noi tutti per riparare ai guasti del mercato telefonico italiano.
Ma chi li ha causati, questi guasti? Proviamo a spiegarci, senza la pretesa di svelare complotto o illeciti, ma semplicemente mettendo in fila e analizzando senza interessi di parte i fenomeni verificatisi in Italia nel settore negli ultimi vent’anni. Siamo di fronte a un normale fenomeno di mercato. Non c’era spazio per quattro gestori di telefonia mobile sul mercato italiano, Wind e H3G ci hanno provato a coesistere e guadagnare restando autonomi, ma senza successo. Ora ragionano su come unire le forze.
Il terzo gestore, appunto Wind, è costato allo stato 6 miliardi di euro, come rivelò ufficialmente l’Enel in audizione parlamentare pochi mesi dopo aver ceduto la compagnia all’imprenditore-avventuriero egiziano Sawiris. Tra soldi investiti nel creare l’azienda e soldi ricavati vendendola, i primi erano eccedenti per appunto 6 miliardi. Oggi Wind ha un ebitda di 2 miliardi ma 10 miliardi di debiti. Quindi è costata 16 miliardi. H3G ha investito 13 miliardi in Italia – tra l’altro, il maggior singolo investimento straniero mai fatto nel nostro Paese – e non ha debiti perché l’azionista unico cinese Hutchison Wampoa l’ha interamente finanziata di capitali propri, ma ha un ebitda di circa 300 milioni e non macina ancora utili netti. Quindi si può dire che sia costata una decina di miliardi…
Chiaro – commenterebbe un liberista: lo spazio di mercato non era abbastanza “capiente” per contenere quattro operatori, e adesso quest’anomalia si sana. Però fermiamoci un attimo, togliamoci le lenti finanziarie e guardiamo al sistema sotto un’altra ottica.
Telecom Italia e Vodafone hanno un ebitda pari a circa il 40% dei ricavi. Significa che ottengono, dalla loro attività industriale, un margine del 40%: è tantissimo, se si pensa che una grande azienda manifatturiera quando raggiunge il 20% di ebitda brinda con lo champagne millesimato. La stessa Wind ha un ebitda di oltre il 35%. E quello di H3G sfiora il 18%. Quindi la redditività industriale di queste quattro aziende è buona. Ma allora perché non possono stare tutte sul mercato, mantenendo l’attuale spettro completo di prezzi, dai più cari – per i servizi a valore aggiunto – ai più bassi? Semplice: perché questa redditività anziché essere destinabile a finanziare gli investimenti e remunerare parsimoniosamente il capitale è soprattutto destinata a rimborsare i debiti di Telecom e Wind, generati dalla clamorosa sfilza di errori di politica industriale commessi dai governi italiani in questo campo. E causa, a loro volta, delle condizioni di concorrenza imperfetta che hanno danneggiato tutti i competitor rispetto alla ex-Sip, ma soprattutto le stesse Wind e H3G.
La politica ha sbagliato dapprima privatizzando malissimo Telecom Italia (1997), poi lasciandola preda degli scalatori che nel ‘99 la indebitarono con quasi 30 miliardi di euro; poi, svendendo Wind a un compratore speculativo com’è stato Sawiris anziché tener duro e sviluppare le sinergie con le altre attività di Enel che aveva giustamente individuato Franco Tatò. Infine, disertando il territorio proprio dell’intervento economico pubblico nelle infrastrutture, cioè lasciando che sulla rete a banda larga l’iniziativa fosse solo dei privati, da Telecom a Vodafone a Fastweb, che ovviamente, tarantolati dai debiti (Telecom), dall’ingordigia di utili (Vodafone) o dalle piccole dimensioni (Fastweb) hanno investito il minimo indispensabile, facendo sì che la rete a banda larga italiana, da eccellente che era, è oggi la cenerentola europea.
La politica ha lasciato che il settore delle telecomunicazioni italiane divenisse preda indifesa delle logiche finanziarie: indebitamento, spolpamento, pochi o nessun investimento, concorrenza imperfetta. Dopo aver violentato Telecom Italia privatizzandola male e lasciandola preda della speculazione ha poi dovuto correre ai ripari difendendone il vantaggio competitivo asimmetrico, sia sulla telefonia fissa che su quella mobile, e quindi svantaggiando i concorrenti. Così nuocendo sia a Vodafone che soprattutto a Fastweb, Wind e H3G.
E così oggi, anziché avere quattro gestori in concorrenza, capaci di investire, con pochi debiti e un ebitda “normale” attorno al 30%, ci avviamo ad avere tre gestori con un ebitda-monstre del 40% che investono poco e hanno tanti debiti. Ma non basta. Infatti, Telecom – che comunque ha spalle larghissime e tanta tecnologia – è riuscita a ridurre il debito a circa 26 miliardi e a riprendere ambizioni progettuali: 14 miliardi di investimenti nella banda larga in tre anni, programmati da Recchi e Patuano, non sono pochi. Ma è una “public company” vera, cioè non ha un padrone, cioè chiunque dei colossi internazionali può comprarsela quando vuole e privare l’Italia dell’unico gruppo tricolore nelle telecomunicazioni.
Nel frattempo lo Stato, attraverso la Cassa depositi e prestiti, è padrone di Metroweb, unica azienda di tlc a essere proprietaria di una bella rete in fibra ottica, piccola ma efficientissima. Ha progettato di farne il centro di un’unica grande rete a banda larga che si integri con quella di Telecom, senza però lasciare alla stessa Telecom la gestione di tutto, per non aumentare il vantaggio sui concorrenti che appunto oggi l’operatore principale detiene. È dunque un rebus: come sinergizzare le reti di Metroweb e Telecom senza far prevalere ancor più Telecom sul mercato? E come fidarsi, del resto, di dare tanta rete a Telecom se poi la stessa Telecom può diventare straniera da un momento all’altro?
Unica risposta possibile: rinazionalizzare Telecom. Questione di mesi, poi lo Stato – che comunque in Telecom ha la “golden share” – vi rimetterà un piede o anche tutti e due, sottraendola al rischio di finire allo straniero. E il giro paranoico delle telecomunicazioni italiane pubbliche – finanziate dallo Stato, spolpate dai privati – sarà tornato alla casella di partenza. Senza che nessuno dei colpevoli di tanta assurdità abbia pagato pegno politico per questo scempio.