E se questa fuga in avanti del governo fosse tutta una montatura? Una specie di enorme soufflé tecnologico-finanziario destinato a sgonfiarsi? Dopo aver visto il topolino partorito dalla montagna di una settimana di polemiche, l’interrogativo è d’obbligo. Già, perché il consiglio dei ministri di martedì – che dalle prime indiscrezioni gradite, se non lasciate trapelare, dagli stessi uffici di Palazzo Chigi, doveva licenziare addirittura un decreto legge per imporre lo “spegnimento” della rete in rame di Telecom Italia tra una decina d’anni a favore di una nuovissima rete tutta in fibra ottica – si è limitato in realtà a discutere nient’altro che un piano d’intenti. Intenti ambiziosi, per carità: 6 miliardi di investimenti per cablare sul serio l’Italia entro il 2030, di cui 4 forniti dall’Europa e solo 2 dalle casse nazionali, opportuna e rincuorante partecipazione, ammesso e non concesso che l’Europa dica sì.
Ma le certezze si fermano qui. Perché per ora il governo non ha detto chi, come, quando e perché dovrebbe assumersi la responsabilità di realizzare la rete, a chi apparterrebbe, chi la gestirebbe, eccetera. Tutte le trattative tra governo da un lato e operatori dall’altro intrecciatesi negli ultimi dieci anni non sono riuscite a venire a capo di questi nodi di base. Che sono ancora tutti lì, intatti.
Giusto per amor di chiarezza, cerchiamo di riepilogare i termini della questione. Che la banda larga sia una risorsa indispensabile è vero, e che l’Italia in vent’anni sia retrocessa da una posizione di avanguardia in materia a una di retroguardia in Europa è altrettanto vero. Dopo di che i veri ostacoli alla diffusione maggiore della banda larga sono stati finora i seguenti:
1) la configurazione orografica del nostro Paese, insomma “com’è fatto”, con tante distanze, tanti dislivelli, tantissimi piccoli centri isolati, dove non è facile, né economico portare materialmente i cavi della fibra ottica: costa troppo, più di quanto può essere ripagato dai clienti;
2) la domanda effettiva di banda da parte dei cittadini e delle imprese che è ancora torpida, e giustamente le imprese private investono i propri soldi solo quando sanno di poterne poi ricavare vantaggi;
3) Il fatto che la rete fissa di telecomunicazioni appartiene ancora per l’80% della sua estensione a un solo operatore, Telecom Italia, che ha il 65% del mercato, cioè una posizione di assoluto monopolio, e non vuole privarsene perché, a dispetto di tutte le leggi che imporrebbero un’assoluta “simmetria” di condizioni economiche di utilizzo tra la stessa Telecom, proprietaria della rete, e i suoi concorrenti che devono da Telecom affittare il diritto d’uso della rete, questa simmetria non c’è. Nei fatti, insomma, Telecom, essendo proprietaria della rete, se la tiene ben stretta perché, secondo le accuse dei suoi concorrenti, la usa per accaparrarsi vantaggi competitivi contro i rivali.
4) Telecom, inoltre – e non per colpa della sua attuale gestione ma per le responsabilità di una privatizzazione fata male da Prodi, Ciampi e Draghi nel ’96, di un’Opa sciagurata autorizzata da D’Alema e di ulteriori discutibili gestioni – è carica di oltre 25 miliardi di debiti che le costano tanti soldi (e meno male che i tassi oggi sono bassi, ma fino a quando?) e quindi non può investire i soldi che sarebbero necessari per farla lei, da sola, la rete a banda larga.
Per questo il governo scende in campo: dice, in sostanza, Renzi che, siccome l’iniziativa privata di Telecom e dei suoi concorrenti non basta ad assicurare al Paese la rete che servirebbe, deve intervenire lo Stato. Bravo: ma della rete Telecom che entra in tutte le case cosa ne facciamo? Lo Stato se la compra per potenziarla, la lascia in Telecom e connette la propria a quella preesistente (ma allora con quali regole di gestione) o cos’altro fa?
Nessuno lo sa. Il coraggio di “espropriare” la rete Telecom, pagandola s’intende, Renzi per ora non ce l’ha. Non ha quello di finanziare Telecom imponendole, in cambio, nuove condizioni gestionali della rete. E quindi fa melina, riempendo i giornali con titoli altisonanti quanto vuoti.