Salvate il soldato Saipem. Un’azienda-gioiello del Sistema-Italia, a controllo pubblico, che rischia di essere travolta certamente da numerosi propri errori ma anche e soprattutto dalla mancanza di una rete istituzionale alle proprie spalle capace di difenderla. Un film già visto in molti casi dalle nostre grandi aziende “strategiche”, ultima l’Agusta, bloccata in India, nell’ignominia, e decapitata, per un’inesistente accusa di corruzione internazionale che le ha rovinato la reputazione per tre anni senza motivo.
Cosa sta accadendo a una delle più apprezzate aziende del mondo nel settore dell’ingegneria petrolifera, attualmente controllata dall’Eni? Sta accadendo una “tempesta perfetta”. Da una parte, il crollo dei prezzi del petrolio sta inducendo numerosi grandi clienti Saipem a rinviare o se possibile annullare gli impegni che avevano preso perché ritengono che i pozzi e le raffinerie previsti per il futuro non serviranno più; e dall’altra, l’operato Saipem da molti anni a questa parte è oggetto di una monumentale inchiesta della Procura di Milano che, pur non essendo ancora giunta a conclusioni convincenti, ha comunque delegittimato una schiera di manager destabilizzando la credibilità e la forza contrattuale del gruppo all’estero.
Per capire in che modo questa “tenaglia” di grane che stringe la Saipem potrà nuocerle fino, potenzialmente, a metterne in discussione la sopravvivenza stessa, occorre fare un passo indietro. Partendo dai contratti messi in discussione dai clienti: ce ne sono almeno tre, per un valore complessivo di mancati ricavi potenziali enorme, pari a ben 788 milioni, che si aggiungono ai 929 di svalutazioni già iscritte dall’amministratore delegato Stefano Cao nell’ultimo bilancio. Una mazzata da tramortire un toro,
C’è poi l’altro fronte, quello delle inchieste giudiziarie. Ci lavora alacremente e da tempo la Procura della Repubblica di Milano, che – pur senza essere arrivata ancora a conclusioni determinanti – sta stringendo l’azienda come in una morsa. L’ultimo atto è la notifica di una informazione di garanzia e di una richiesta di documentazione nell’ambito di un nuovo procedimento penale a carico della Saipem per il solito, presunto reato di corruzione internazionale, a proposito di un contratto assegnato nel 2011 dalla società brasiliana Petrobras a Saipem SA (Francia) e Saipem do Brasil (Brasile). Di buono ci sono le voci di una nuova, grossa commessa per una raffineria da 1,57 milioni di dollari, con un contratto che dovrebbe essere siglato in ottobre. Speriamo.
In realtà, oggi la “Società anonima italiana perforazioni e montaggi” creata da Mattei per rendere l’Eni ingegneristicamente autonomo, conta ancora quasi 50 mila dipendenti, lavora in tutto il mondo, ma versa in una grave crisi finanziaria che si sostanzia in ben 5,5 miliardi di debiti e in un portafoglio-ordini che dopo le svalutazioni prima citate sembra improvvisamente diventato tutto… di cattiva lega.
Il “revisionismo” di Saipem comincia dopo un’inchiesta per corruzione internazionale in Algeria all’inizio del 2013 che arriva a suggellare il lavoro interno di audit intrapreso autonomamente dal gruppo Eni e arrivato, alla fine del 2012, a indurre il capo dell’Eni Scaroni a chiedere all’allora amministratore di Saipem, Franco Tali, le dimissioni immediate. Tali viene sostituito da Umberto Vergine, il quale non può che constatare come effettivamente su quella commessa algerina c’era nei conti un “buco” da chiudere. Cosa che viene fatta, ma è una prima batosta.
Oggi, in attesa che l’affare Petrobras si chiarisca, si sa già che però anche su altri grandi appalti i ricavi sarebbero stati “sovrastimati”, tra cui probabilmente uno in Kuwait. Malagestio? Incompetenza? Intrallazzi? Forse un po’ di tutto. E nel frattempo, un’azienda discreditata sui mercati, dove se ne riconosce tuttora la leadership tecnologica ma non più quella reputazionale: non gliela riconoscono gli onesti, per ovvie ragioni; e ancor meno i disonesti, per i quali il polverone sorto sulle commesse “sospette” significa una sola cosa, che le future iniziative di Saipem saranno così attentamente monitorate da non permettere più loschi vantaggi per alcuno.
A questo quadro criticissimo si aggiungono altre noie di tipo più che altro burocratico relativo ai rapporti con gli azionisti di minoranza e ad asseriti comportamenti “opachi” della società: ma questa è un’altra storia. Certo è che in queste condizioni la Saipem è, per “mamma Eni”, una palla al piede finanziaria insostenibile e una propaggine industriale di dubbia utilità. Gioverebbe un passaggio di mano, naturalmente sempre mani italiane, per il quale si pensa a un intervento dei nuovi vertici della Cassa depositi e prestiti, Claudio Costamagna e Fabio Gallia. Una Saipem fuori dall’Eni avrebbe più tempo per “rimpannunciarsi”, azzererebbe i rischi di conflitto d’interessi e, nel frattempo, gioverebbe alla casa madre alleggerendone i conti.
Saprà il governo Renzi promuovere una simile mossa? Gliene sarebbe reso merito? Forse dai mercati. Probabilmente non dall’opposizione parlamentare e ancor meno da quella extraparlamentare delle toghe.