Non c’ha pensato il governo, preso com’è dalla propaganda per il referendum; non c’hanno pensato i sindacati, ufficialmente desaparecidi. Ma a informarsi – e informare – su quanti saranno gli italiani che perderanno il lavoro a causa della fusione tra Wind e 3, rispondendo alle domande del Sussidiario, ha provveduto l’agenzia di stampa americana Bloomberg che ha riferito due cifre, a oggi non smentite: “almeno” 1.500 tagli e 500 milioni di fondo esuberi per pagarli. Onore al merito dell’informazione. Reazioni, nessuna. Sindacati, non pervenuti. Governo muto, e sì che la fusione taglia-posti è dipesa da una sua firma.

Un paio di incongruenze nei numeri, di tutta evidenza, e sempre ammesso che i numeri siano quelli: dividendo 500 milioni di euro per 1.500 persone viene fuori la bella cifretta di 330 mila euro a cranio. Ebbene, visto che secondo l’Istat il costo medio annuo per lavoratore in Italia è di 31 mila euro, se così fosse significherebbe che, per ogni uscita volontaria, la ditta pagherebbe dieci anni di stipendio: caspita, possiamo firmare subito, dove si firma? E anche ipotizzando che quei furboni dei telefonici guadagnino una volta e mezzo il guadagno medio italiano, cioè 45 mila euro, sarebbe pur sempre come pagargli 7,5 anni di stipendio…

Più probabile allora che i tagli saranno il doppio, circa 3.000. Fatti da un’azienda che nasce con una redditività industriale molto buona, circa il 40%. Ma allora quanto deve guadagnare, secondo questi criteri di management, un’azienda per non tagliare posti di lavoro? Vabbè che il governo pregusta i 100 mila nuovi posti presto creati dal cantiere del Ponte sullo stretto, cosa vuoi che siano 1.500 tagli?

Ma c’è un’altra piccola incongruenza, in questi numeri, dal punto di vista aziendale. Sempre ammesso che il costo medio annuo di uno di questi lavoratori sia di 45 mila euro, tagliandone 1.500 la ditta risparmia 67 milioni di euro all’anno. E allora, perché spendere 500 milioni di fondo esuberi per risparmiarne 67 all’anno, e quindi impiegare più di 7 anni per recuperare i soldi spesi nel primo? E poi: l’azienda ha fatto sapere ufficialmente, invece, che intende sviluppare sinergie per 800 milioni all’anno: e gli altri 733 milioni che non arrivano dai tagli al personale, dove li va a prendere? Dal rialzo dei prezzi? E come farà, visto che Tim ha annunciato il lancio di una sua compagnia low-cost e che per lanciarne un’altra molto agguerrita sta per arrivare in Italia il dinamico operatore francese Iliad?

Sono tutte domande lecite, quasi ovvie, che avrebbero dovuto essere poste dal governo, che dovrebbero e potrebbero ancora essere poste dal governo, anche se ormai la frittata – pardon, la fusione – è fatta, perché comunque attraverso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, lo Stato influisce in modo determinante sul business dei telefoni, e per esempio non sarebbe impensabile un contributo di solidarietà da inserire nel canone di concessione a fronte della nuova disoccupazione che viene creata.

Ma si sa: il governo è altrove. Se ne parlerà il 5 dicembre; con chi è da vedere.