C’è una domanda, una domandina semplice-semplice, che né il ministero dello Sviluppo economico, pur firmando la sua approvazione alla fusione tra Wind e 3 Italia, né i sindacati dei lavoratori delle telecomunicazioni (pur non essendo sordomuti) hanno ancora rivolto, chiara e tonda, ai grandi azionisti dei due colossi delle telecomunicazioni da lunedì fusi: quanti posti di lavoro verranno tagliati per sviluppare quei 700 milioni di “sinergie” all’anno che creeranno i 5 miliardi di “valore delle efficienze” previsti nel piano industriale?
Il Sussidiario l’ha segnalato da mesi, questo buco nell’informativa. Ma goccia dopo goccia, evidentemente, il mantra anti-gufi della propaganda renziana sta facendo i suoi effetti, salvo poi stracciarsi le vesti di fronte ai casi Almaviva e simili. Nessuna domanda, non disturbiamo i manovratori. Eppure in questa vicenda i fatti sono trasparenti. E gridano addirittura che ci saranno tagli, e non taglietti. Mannaia.
Mannaia consensuale? In parte sì, tanto meglio per chi troverà nell’imminente ristrutturazione buone ragioni economiche per accettare un’uscita incentivata: ma l’Azienda Italia dovrebbe pur sapere se una maxi-fusione tra due concessionarie pubbliche (le licenze telefoniche sono una risorsa scarsa, e appartengono al popolo italiano: sia detto così, giusto per ricordarcene) genera un saldo occupazionale attivo (alias: crea nuovi posti di lavoro), neutro (né li crea, né li distrugge) o passivo, e in tal caso di quanto (quanti posti distrugge). Questa fusione distruggerà lavoro. Potrebbero di grazia, governo e sindacati, farsi per favore dire quanto ne distruggerà?
Wind è un’azienda grande che ha un’ottima redditività industriale, addirittura nell’ultimo trimestre ha sviluppato un margine lordo (ebida) del 40% circa, significa che ogni 100 euro di fatturato 40 vanno all’utile prima di aver fatto accantonamenti, ammortamenti e pagato tasse e interessi bancari. Tanto per capirci, Telecom Italia fa il 45%, poco di più. Ma Wind ha un fardello di 9 miliardi di debiti. Poverini? Mica tanto. Quando lo Stato (tramite l’Enel) uscì da Wind, ammise di averci perso 5 miliardi, tra investimenti fatti, perdite e introiti dalla cessione al finanziere egiziano Sawiris, il quale comprò l’azienda indebitandola ulteriormente, e quando la cedette a Vimpelcom, (l’attuale gruppo proprietario che fa capo alla Alfa Bank dell’oligarca russo Mikhail Fridman, diretto collaboratore e amico di Putin), quest’ultimo non si prodigò in ricapitalizzazioni, pur nuotando in un mare di soldi.
Diverso il caso dei cinesi (di Hong Kong) della Ck Hutchison, fondata dall’oggi ottantasettenne magnate Li Ka Shing, che ha investito 14 miliardi di euro sonanti in H3G, cioè 3 Italia, ottenendo finalmente da tre anni un’azienda che non perde più soldi e non ha debiti (nel senso che tutti quei costi sono stati finanziati dai soci, com’è giusto), ma guadagna ancora troppo poco (l’ebitda dovrebbe essere di circa il 25-30%, si saprà a fine anno) per generare dividendi e ripagare gli investimenti ricevuti.
E siccome il mercato telefonico italiano è piuttosto saturo, e quindi nessuno dei due gruppi prevedeva ragionevolmente di poter crescere ancora, ecco l’idea di unirsi: prima, nell’ipotesi che uno dei due comprasse l’altro (a lungo si pensò che l’avrebbe fatto Ck Hutchison, che ha più soldi ed è molto più industriale di Alfa Bank, puro investitore finanziario speculativo) e poi, non mettendosi d’accordo sul prezzo (falli accordare, russi e cinesi!), in una formula paritetica di controllo e cogestione triennale: si vedrà poi chi avrà voglia e denaro per comprare la metà dell’altro.
Bene: ma questi 700 milioni all’anno di “efficienze” da dove arrivano? Qualcuno ha trovato il petrolio alla Magliana, quartier generale romano di Wind? O a Trezzano, sede milanese di 3 Macché. Più verosimilmente, sui circa 10 mila dipendenti che i due gruppi totalizzeranno insieme e sui circa 4.000 negozi che spesso si fronteggiano da una parte all’altra delle stesse strade, molti sono di troppo. E verranno tagliati. Quanti? Cento? Mille? Duemila?
Per tornare all’origine delle sinergie tra Wind e 3 Italia, si legge su Il Sole 24 Ore che i 700 milioni all’anno si ricaveranno “al netto dei costi di integrazione”. È sicuro che tra questi costi ci saranno anche tante buonuscite. Bene: finché a togliere il disturbo saranno top-manager ridondanti (non ha senso tenere doppioni nelle funzioni di vertice di due aziende che diventano una sola) nessun problema e buon pro per chi intasca uno o due milioni di euro di liquidazione. Ma gli altri?
Un quadro che viene mandato via anche con due anni di stipendio, che certezze ha, di questi tempi, di ritrovare un lavoro? E i call-center? S’è visto nel caso Almaviva che in Italia i loro conti stanno su con lo spago. Che senso avrebbe tenere intatta l’occupazione degli attuali, distinti call center di 3 e Wind? Ma queste domande nessuno le ha poste, neanche gli uomini del governo, prima di mettere il loro timbretto sulla fusione.
E c’è un ultimo punto che politica e sindacato trascurano. Quando Wind e 3 si presentarono a Bruxelles, all’Antitrust europeo, per illustrare il loro piano originario di fusione, sostennero che in Italia il mercato non dava spazio sufficiente per 4 operatori telefonici mobili. La loro idea era che, fondendosi e smettendo quindi di farsi concorrenza l’un l’altro, avrebbero potuto alzare i prezzi minimi – senza nessun concorrente rimasto ad approfittarne! – e così avrebbero migliorato i guadagni, a spese dei consumatori ovviamente.
Peccato che la commissaria europea all’Antitrust, Marghrete Vestager, una socialista danese tostissima, ha capito subito il gioco e ha condizionato il suo sì alla nascita di un quarto operatore, individuato nel gruppo francese Iliad, detto la “RyanAir” dei telefoni, che ha avuto da Bruxelles il diritto di comprare (e Wind e 3 hanno l’obbligo di vendergli) le frequenze e i sistemi (antenne, roaming e tutto l’ambaradan tecnologico) necessari per proporsi l’anno venturo come quarto operatore agli italiani: un operatore discount, tutto digitale sin dalla nascita, pochi dipendenti (aridaje) e dunque prezzi stracciati. Per cui se Wind e 3 pensavano di alzare i propri costi, contando sull’assenza di concorrenti low-cost, resteranno con un palmo di naso. A maggior ragione: dove ricaveranno i risparmi? Tagliando costi. Che taglino quelli che vogliono, ma il personale?
Domande a oggi senza risposta, e sì che i numeri da qualche parte ci sono. Glieli si faccia dire. I liberisti puri in casi del genere sostengono: “Non si possono contrastare le ristrutturazioni, per dolorose che siano, altrimenti si rischia la deindustrializzazione”, cioè i colossi internazionali se ne vanno dall’Italia. Tutte balle: per Vimpelcom e CkHutchison chiudere bottega e azzerare nei propri conti il valore della attività in Italia sarebbe un puro suicidio. Colossi del genere – vedasi il caso Whirpool – lo minacciano, ma non lo fanno. Non gli conviene.
Infine: non è vero che senza fusione non ci sarebbero stati investimenti, né che con la fusione se ne faranno di più. Verranno fatti solo (e sarebbero stati fatti comunque, magari in più tempo) gli investimenti necessari a guadagnare, cioè quelli che conviene fare agli investitori, non un euro sarà “regalato” al sistema Paese: figuriamoci se investitori basati a migliaia di chilometri da noi si preoccupano di donare infrastrutture all’Italia, per la bella faccia di Renzi e di tutti noi: e chi sono, dame di San Vincenzo?