La sequenza è talmente perfetta da risultare intellettualmente irresistibile. 1) Telecom viene privatizzata disastrosamente nel ’97 dal governo Prodi con la benedizione del suo “padrone” D’Alema e dietro l’input imperioso dell’Unione Europea, auspice l’accordo di svendita del Paese firmato da Beniamino Andreatta con il commissario Karel Van Miert pur di far entrare l’Italia nell’euro sin dalla fase uno e a condizioni capestro che ancora stiamo pagando; 2) Telecom Italia viene scalata dai dalemiani e da Mediobanca, devastata finanziariamente e non riesce a riprendersi;



3) dopo un tentativo di Tronchetti Provera, certo imperfetto ma visionario eppure boicottato in tutti i modi dalla sinistra dalemiana e post-dalemiana, sulle macerie finanziarie di Telecom irrompe un socio di controllo francese protetto da Mediobanca, in cui è socio di riferimento, e all’epoca irresponsabilmente gradito a Berlusconi: Vincent Bollorè, il quale nell’inerzia colpevole del governo Renzi (che avrebbe dovuto e potuto almeno nazionalizzare la strategica rete telefonica di Telecom, creata nei decenni dalla Stet con i soldi dei contribuenti e non l’ha fatto) rileva senza combattere il controllo del gruppo, quasi come fece Carlo VII di Francia che “prese l’Italia col gesso”, conquistandone città e contrade col solo segnare sulle porte delle case, a grandi tratti di gesso, che quegli edifici erano sequestrati dalle sue truppe (da “Il Principe” di Machiavelli); 4) sul declino industriale del gruppo Berlusconi la Telecom di Bollorè piazza la mazzata finale, e riunisce sotto un diverso tricolore le due aziende private di comunicazione più importanti del Paese.



È una sequenza perfetta e malefica, sia per la discutibilissima qualità morale e culturale di chi si ritrova così a detenere il controllo di due colossi che influiscono in modo rilevante sullo sviluppo materiale e sociale del Paese – come l’azienda che ne controlla la principale rete telematica e la più grande azienda editoriale privata -, sia perché se anche Bollorè fosse un angelo di virtù, e non lo è, avere tanti utili timbrati Francia, che generati in Italia prendono la via di Oltralpe, è l’ennesima ferita inferta al nostro capitalismo, dopo la lunga sequenza talmente nota (ultima vittima, Pioneer) di grandi aziende italiane prese, per poco, da acquirenti francesi, che non merita di essere ripetuta. 



Però attenzione, due osservazioni vanno ancora fatte perché dal commento perdente e fatalmente piagnone potrebbero ancora innescare una difesa degli interessi collettivi. Innanzitutto, Telecom Italia è un’azienda – come tutti i gestori telefonici – vulnerabilissima alle decisioni dei governi. Basta che l’Autorità garante per le telecomunicazioni (Agcom) ritocchi di uno zero-virgola una delle tante tariffe e tariffucce che regolano e un’azienda telefonica (una Telco, in gergo) capitombola a gambe all’aria. Certo, in teoria l’Agcom non può fare “quello che vuole”, ma in pratica il suo potere di fatto sulle Telco è quasi assoluto, e potrebbe dare filo da torcere allo scalatore Bollorè.

Paolo Gentiloni, neopremier ed ex ministro delle Comunicazioni, queste cose le sa bene. La convergenza tra Telco e Tv è un tema di cui ci si dibatte da vent’anni, dalla fallita fusione, in suo nome, tra Aol e Time-Warner; la si sta considerando – alternativamente, e a seconda delle scuole di pensiero – una baggianata o un destino fatale. Di sicuro c’è che oggi il mercato dei soli, veri contenuti “premium” che la gente brama, cioè i diritti sportivi, sta diventando un mercato per colossi. Dove contano solo i soldi. Chi ne ha tanti, vince. Insieme, Telecom e Mediaset possono avere tanti soldi da spendere. Ma sono soldi fatti in Italia: perché deve deciderne l’investimento un francese che i suoi, di soldi, li ha fatti gestendo la logistica dei porti mercantili dell’Africa nera, un mestiere che richiede il pelo sullo stomaco di un gorilla?

Sarà interessante capire cosa ne pensa Gentiloni, che ha virtualmente in mano le leve dell’Agcom (autorità indipendente per modo di dire) e tutto il diritto-dovere di “moral suasion” di un governo che, simmetricamente a quel che farebbero i francesi, sulle sorti di due aziende così profondamente nazionali avrebbe dovuto e potuto (per Telecom) e ancora dovrebbe (per Mediaset) dire chiaramente: no, grazie.

La risposta a mezza bocca del cosiddetto establishment – in questo caso concordi D’Alema e Renzi! – è che a Berlusconi, in fondo, ben gli sta: è vecchio, è bollito, non ha veri eredi imprenditoriali. Ma in un mondo in cui l’ultraottuagenario Murdoch vuole prendersi tutta Sky per decidere da solo e mettere in tasca il 100% dei profitti, non si vede perché un altro ultraottuagenario come Silvio Berlusconi non possa ancor dire la sua, conservare – per sé, per i suoi eredi, o per una fondazione italiana, o per qualche altra diavoleria societaria immaginabile – la proprietà di Mediaset e debba per forza calare le brache a un socio straniero.

Certo è che Berlusconi da solo non riuscirà a difendersi a lungo. Forse non ne ha i soldi, sicuramente non vuole spenderseli tutti per una simile gravosissima difesa. Dovrebbe scattare attorno a lui il sistema Paese. Già: ma quale sistema? Non quello di Renzi, che sul far favori agli stranieri ha costruito la sua immagine internazionale di “utile idiota” rappresentata con ipocriti elogi dai media stranieri compiacenti su ordine dei loro editori avvantaggiati. Ultima puntata, questa pietosa operazione Montepaschi dove l’unica possibilità concreta è che JpMorgan intaschi un sacco di soldi sui cocci della banca più antica del mondo. Non quello del capitalismo privato, il cui campione Marchionne – ovviamente renziano – ha trasferito all’estero utili e sede legale generati dalla Fca, tra gli applausi non si sa se più ignoranti o servili del governo. Non quello di Mediobanca, che si conferma – dopo il caso Telecom – il vero e proprio “coroner” (il medico legale che constata il decesso) dell’imprenditoria italiana.

C’è da sperare nel conte Gentiloni. Ma ci vuole tanto, tanto ottimismo.