Sullo scacchiere delle telecomunicazioni europee sta andando in scena una commedia degli equivoci un po’ surreale. Da una parte un nugolo di operatori telefonici medi, grandi e grandissimi che vanno freneticamente avanti e indietro, trattando, litigando, annusandosi in vista di improbabili fusioni e integrazioni, che a parole tutti invocano, ufficialmente per mettere insieme i costi, ma sostanzialmente per rialzare i prezzi. Dall’altra parte l’Antitrust europeo, retto dall’inflessibile commissaria Margrethe Vestager, che guarda tutto questo agitarsi dall’alto, con aria sdegnata se non vagamente schifata, e con la bacchetta stretta in pugno, decisa a dare filo da torcere a tutti coloro (cioè: tutti) che pensano di fondersi solo per imbellettare i bilanci a spese dei consumatori.

In questo quadro, la giornata di ieri è stata emblematica. Già, perché la commedia degli equivoci ha fatto tappa in Francia e ha tirato in ballo una delle grandi aziende sicuramente coinvolte in quest’agitazione, cioè Telecom Italia. Come sempre senza esito, ma non soltanto lei. Per capire non tanto cosa sta accadendo, ma soprattutto perché non stia accadendo. Niente di nuovo, procediamo per gradi.

Telecom Italia. Ha presentato i dati del 2015 alla comunità finanziaria. Che dire? Numeri in chiaroscuro. Lavorano bene, Marco Patuano e Giuseppe Recchi, rispettivamente amministratore delegato e presidente di Telecom. Ma neanche Superman e Spiderman potrebbero risolvere il loro vero problema, che si riassume in tre dati. Un ebitda consolidato che nel 2015 è stato di 7 miliardi di euro, in calo del 17,9% rispetto al 2014; e l’indebitamento finanziario netto rettificato è salito a 27,3 miliardi. Il rapporto è di 3,9, cioè per ogni euro di utile industriale, ce ne sono 3,9 di debiti. La media dei competitor europei è di 2 volte. Anche se Telecom pagasse il debito in media il 3%, sono pur sempre 800 milioni di oneri finanziari all’anno, e senza aver rimborsato un euro di capitale. Per non parlare della redditività industriale, molto diminuita. E degli impegni di investimento, giustamente forti, nel nuovo piano industriale: tra il 2016 e il 2018 solo in Italia 12 miliardi di euro, di cui circa 6,7 sulla rete in fibra, la rete mobile Lte, il cloud-computing, la controllata Sparkle, eccetera. Come dire: non tagliabili. Un bel piano industriale, che piace ai mercati, ma con poca benzina finanziaria per sostenerlo. E niente dividendi alle azioni ordinarie.

Il fronte francese. Ma cosa succede, dentro e attorno all’azionariato di Telecom Italia? In realtà, niente che non sia già chiaro. I due soci “forti” sono il gruppo Vivendi, controllato da Vincent Bolloré, che è anche il maggior singolo azionista straniero di Mediobanca; e il magnate di Iliade-Free Xavier Niel, operatore telefonico alternativo. Nell’attuale governance, né Bolloré (a dispetto del suo 21,4%), né Niel (che ha l’11%) contano qualcosa. Può durare quest’ininfluenza? Improbabile. Al prossimo turno assembleare i francesi faranno un blitz o si limiteranno a inserire qualche uomo in consiglio? Probabile il blitz: ma è anche vero che Bolloré e Niel non lavorano insieme. Neanche si può dire che siano reciprocamente ostili: però finora sono andati avanti in ordine sparso.

Intanto ieri a Parigi anche il capo di Orange (l’ex Telecom France) Stephane Richard ha incontrato i giornalisti per presentare i risultati 2015: “Sull’Italia voglio essere molto chiaro”, ha detto: “Nessun contatto con Vivendi o Niel e nessun piano di acquisto di Telecom Italia”. E c’è da credergli: ha altro da fare. “Con Telecom Italia ci sono scambi di opinione sul settore e sullo sviluppo della tecnologia. Con Telecom parliamo di Telecom. Non voglio commentare la strategia di Vivendi che è abbastanza grande per spiegarla da sé o quella di Niel, che investe dove gli pare. Certamente, hanno considerato che Telecom Italia è una bella azienda, con un grande potenziale”. Chi sperava, o temeva, che prima o poi i due soci francesi di Telecom passassero le loro quote a Orange, è servito: niente del genere. Anche perché nel frattempo Orange ha altro da fare in Francia, dove sta trattando l’acquisizione di Bouygues Telecom. Che richiederà, però, la cessione di asset a concorrenti come Iliad (proprio l’azienda di Xavier Niel) e Numericable-Sfr per ottenere il via libera delle autorità competenti.

Il “niet” dell’Antitrust. Perché questo è – per tornare alla premessa – la novità del settore. Che l’Antitrust europeo si è rivelato duramente ostile alle fusioni “prezzo-centriche”. Quelle che cioè, a dispetto delle smentite degli interessati, si spiegano soprattutto con la necessità di alzare i prezzi ai clienti finali. E tutte le fusioni, al di là del “latinorum” dei consulenti che le illustrano, hanno alla fin fine questo scopo. Ma se l’Antitrust dice “niet”, non c’è niente da fare. Chiudere bottega? Macchè: con tutti i soldi investiti e immobilizzati nelle telco, nessuno dei loro grandi soci può permettersi di azzerare gli investimenti. E questo la Vestager lo sa. Macelleria sociale? Anche no: ormai gli organici tendono all’osso, se si vuol mantenere attivo il servizio e quindi fatturare, non si può licenziare più di tanto. E del resto, anche le fusioni conducono a dei licenziamenti. Quindi… Stavolta alla roulette delle telecomunicazioni vince solo il banco, e il banco abita a Bruxelles.