Decisamente, dal suo inglese balbettante agli sgarbi a Martin Schulz alla semi-sconfessione di “Lady Pesc” Federica Mogherini, non sono le relazioni internazionali il forte di Matteo Renzi. Le radici rignanesi tirano, trattengono… Quando poi, cioè sempre, le relazioni internazionali sono a baricentro economico, l’affare si complica. L’ennesima gaffe di Renzi all’estero risale a quando martedì, durante il vertice italo-francese di Venezia, a una domanda precisa di un giornalista parigino su cosa pensasse di un’eventuale fusione tra Telecom Italia e Orange (l’operatore telefonico pubblico di Oltralpe), il nostro premier si è lanciato nella solita tiritera su quanto siamo fieri che gli stranieri investano in Italia, su quanto siamo contenti che ciò accada, che basta col capitalismo di relazione, che chiunque rispetti le regole è ben accetto eccetera: “Si apre una pagina nuova per questo Paese, dove la libertà dell’imprenditore di investire è fatta salva”, ha detto. “Noi siamo ben felici se si creerà un polo che potrà valorizzare in particolar modo la cultura latina, la cultura franco-italiana, la cultura europea, ma naturalmente lasciamo che sia il mercato a fare la propria parte e siano coloro i quali hanno soldi da investire a farsi sentire. È finito il tempo in cui si investiva a parole e non con i soldi. Chi ha soldi, chi ha progetti, chi crea posti di lavoro, chi ha idee intriganti sappia che l’Italia è il posto adatto per sperimentare le proprie capacità di imprenditori e la voglia di futuro”, ha aggiunto.
Una roba veramente stucchevole, e per di più campata in aria, perché se qualche investimento dall’estero in più c’è stato lo si deve allo spread ristrettosi tra Btp e Bund grazie alla Bce e al clima di svendita che qua e là si respira in vari settori industriali italiani.
Fatto sta che il povero cronista francese ha giustamente interpretato la risposta fluviale del Premier come un “Ben venga Orange su Telecom”, e l’ha scritto, inducendo palazzo Chigi a una puntualizzazione formale secondo la quale il presidente del Consiglio Matteo Renzi non si è mai detto “felice di una fusione Orange-Telecom. Piuttosto il capo del Governo ha fatto un discorso più ampio sugli investimenti internazionali e l’Italia”… In realtà, davvero Renzi ha perso una buona occasione per tacere. Il suo governo, pur nel semplice biennio che ha all’attivo, ha perso varie volte occasioni anche migliori di mettere ordine nelle macerie di quella che era la telefonia più dinamica d’Europa.
Quando Renzi si è insediato ha trovato Telecom Italia soggiogata da un socio estero, la spagnola Telefonica, interessata solo a bloccarne gli sviluppi a essa potenzialmente concorrenziali. Da più parti gli è stato consigliato di imporre – con una legge sarebbe stato facile – lo scorporo e la nazionalizzazione della rete fissa di Telecom, l’asset indubbiamente strategico del gruppo, e non l’ha fatto. Neanche quando si è profilato qualche compratore, anch’esso straniero, che avrebbe acquistato tutto il resto se solo Telecom non avesse avuto la rete di proprietà.
Il disinteresse totale di Telefonica ha fatto sì che gli spagnoli cedessero ai francesi di Vivendi il loro pacchetto di azioni Telecom residuato dallo scioglimento della holding di controllo Telco, e oggi il colosso controllato da Vincent Bollorè si ritrova ad avere il 24% di Telecom, quindi il pieno potere sul gruppo, per aver scambiato altri asset con Telefonica e aver accettato di essere in parte pagato in natura, con azioni Telecom. Cui poi ne ha aggiunte molte altre comprate sul mercato.
Telecom Italia è già francese, anche se forse Renzi non ci fa caso. È di Bollorè. La beffa sarebbe quella di vederla fusa in Orange, società a controllo pubblico, e assistere quindi al ritorno sotto le tende di uno Stato sovrano della nostra antica Sip, privatizzata malissimo nel ’97 (con la svendita della quota pubblica per 27 mila miliardi) e due anni più tardi spolpata dall’Opa Olivetti. E non a caso lo Stato sovrano in questione sarebbe la Francia e non l’Italia.
Una volta, però, l’ex viceministro per lo sviluppo economico Carlo Calenda, che Renzi ha mandato a far l’ambasciatore a Bruxelles (scontentando tutti), spiegò la differenza che c’è tra gli investimenti “green-field” e quelli “brown-field”. Farebbe bene a ripetere la spiegazione a Renzi. Quelli “green field” sono meritori e interessanti e si chiamano così perché qualcuno mette soldi su un “prato verde”, dove non c’è nulla, per realizzarci sopra un’azienda: allora sì che bisogna brindare, perché arrivano soldi freschi e benessere. Brown field significa che invece il campo è già marrone, cioè già edificato, cioè l’azienda c’è già, e si limita a passare di mano: da una proprietà all’altra, da uno Stato all’altro. C’è molto ma molto meno di che brindare.
Ma, alla fin fine e gaffes a parte, si farà la fusione Telecom-Orange? La Borsa ci crede, e ha fatto salire il titolo di Telecom del +3,96% a 1,038 euro. “Se Orange si fondesse con Telecom, il governo francese avrebbe una quota del 19% dell’entità combinata e Vivendi un 5,3%”, rilevano gli analisti di Banca Imi. Stupenda: una rinazionalizzazione di Telecom, ma per vie straniere. E del resto: non capire che l’unico asset da difendere, nonché difendibile, è la rete fissa è stata una delle non rare distrazioni renziane. A questo punto, a chi appartenga Telecom, visto che ormai non è più italiana, diventa quasi una questione marginale.