Dunque Verizon vuole comprarsi Yahoo, cioè il più piccolo tra i grandi operatori “Ott”, sigla per “Over the top”, l’accezione americana con cui vengono identificati Google, Facebook, Twitter, Amazon ed eBay (o Apple, a seconda), cioè gli operatori del web che utilizzano praticamente gratis la rete telefonica, anche e soprattutto quella in banda larga, e ci guadagnano tesori senza pagare pegno. La speranza è semplice: utilizzare il brand di Yahoo, e la sua capacità nell’inventare ed erogare servizi sul web, per trattenere clienti sulla propria rete di telecomunicazioni. Niente di nuovo, ma è commovente che ci riprovino, oggi, le telecommunication company, dopo aver abdicato a questa sfida in tempi non sospetti, dieci-quindici anni fa, quando ancora avrebbero potuto prendere con poche lire il controllo dei nascenti colossi del web.

Per la storia, qualcuno ricorderà come nel ’99 un motore di ricerca piccolo, ma all’epoca molto competitivo per il mercato italiano perfino rispetto a Google, cioè Virgilio, venne conteso da più pretendenti – dal Gruppo Espresso alla Seat – perché si riteneva che controllandolo si sarebbe entrati a gonfie vele nel meraviglioso business del web. Invece, macché. Successivamente, passato a Telecom e confluito con Tin.it, Virgilio è stato vissuto sempre più come un impiccio e sempre meno come una risorsa, finché è stato integrato con Libero sotto l’egida di una pura società Internet, Iol, a sua volta fuoriuscita dalla pancia di un’altra Telco, Wind.

Intanto Vivendi, comprandosi il controllo di Telecom ed entrando in Mediaset rilevando il controllo di Premium, ha ridato smalto a una vecchia solfa ormai stanca, che cioè un editore produttore di contenuti (appunto, Vivendi) possa trarre vantaggi competitivi importanti dal fatto di controllare una rete di telecomunicazioni. È una chiara panzana, perseguita per anni come un mito, come il “Vello d’oro” del futuro, e precisamente sin dal 1999, anno in cui l’allora potentissima Time Warner si fuse con l’allora attraentissima Aol (American On Line) meravigliando per la prima volta il mondo all’idea delle magnifiche prospettive dell’alleanza tra contenuti e servizi web. Poi, si sa com’è andata: i contenuti di Time Warner non sono stati avvantaggiati neanche un po’ dall’alleanza con i servizi internet di Aol. E del resto, citofonare Fastweb per sapere se l’alleanza pluriennale con Sky ha toccato profondamente il conto economico aziendale oppure no: la risposta è no, perché ricevere i contenuti di Sky, a pagamento, sulla fibra ottica di Fastweb anziché via parabola era conveniente solo per chi avrebbe altrimenti dovuto installarsi “l’orecchione” sul terrazzo, ma non per chi – e a Milano, regno della fibra ottica di Fastweb, sono tanti! – ha il collegamento satellitare condominiale.

Dunque, ciò che le Telco stanno cercando di fare comprando Ott (Verizon) o “lasciandosi comprare” da media-company (Telecom) è una rimasticatura freddo di strade già fallimentarmente percorse. È una ricerca dell’Arca perduta, un tentativo di rimettere il dentifricio nel tubetto. Cioè riprendersi i ricavi che in quindici anni le Telco hanno regalato agli Ott. Lasciandoli scorrazzare a costo “flat” sulle reti che poi erano e sono loro a dover manutenere e potenziare. Scorrazzare e guadagnare utili ricchi o ricchissimi senza particolari meriti.

Colpa di quella generazione di analisti di business e di manager telefonici che ha barattato a suo tempo la primogenitura di Internet – che risiedeva fisiologicamente all’interno delle società di telecomunicazioni – col piatto di lenticchie delle tariffe flat, nell’illusorio presupposto che l’incremento del consumo di connettività avrebbe comunque comportato, inevitabilmente e implicitamente, la crescita del business. Invece no: questa passiva adesione al teorema della net-neutrality – che nasce all’epoca, e per errore di calcolo di business, non certo per l’afflato ideale di cui è stata successivamente ammantata! – ha indebolito l’offerta agli occhi del cliente, diluito la differenziazione qualitativa della connettività (un Adsl vale l’altro) e nessuno ha più guardato alla qualità della rete, soprattutto quella fissa, come a un vero valore di mercato. La concorrenza si è concentrata sul prezzo e sui gadget. Il marketing spadroneggia e la redditività del cliente (il mitico Arpu, cioè i ricavi medi per contratto) è scesa.

Eppure sarebbe bastato leggere quattordici anni fa “L’era dell’accesso” di Rifkin per capire che l’economia del contatore stava terminando. Che per le Telco era indispensabile crescere dentro la Rete e non al di fuori di essa. Ma oggi è tardi per rimediare. Le Telco hanno sottovalutato la forza e la natura delle applicazioni che stavano dando potenza alla Rete e hanno minimizzato il valore dei contenuti. Ora stanno tentando tardivamente il recupero, su entrambi i fronti.

E le media company? Certo, come pensa Bollorè con la sua Vivendi, possono cogliere qualche opportunistico vantaggio di marketing unificando le offerte ai clienti, vendendo loro connettività e contenuti insieme, “pacchettizzati”, come dicono i manager commerciali. Ma sarà vera gloria?

Netflix non ha avuto alcun bisogno di controllare una rete di telecomunicazioni, o di esserne controllata, per veicolare con successo i suoi contenuti on-line; e Amazon non si è lasciata intimidire dal successo di Netflix, ma, al contrario, l’ha inseguito lanciandosi nelle offerte video a prezzi ancora più bassi di quelli della nuova televisione on-demand cara agli americani.

In realtà, il pubblico cerca e consuma i suoi contenuti preferiti ovunque e comunque il web glieli offra, senza nemmeno accorgersi se lo sta scaricando da una rete o da un’altra, in una sorta di indifferenziato roaming multimediale, del tutto invisibile ai suoi occhi.

E allora, povere Telco? Per fare più soldi, continueranno a tentare di concentrarsi, fondersi tra loro: come hanno cercato di fare senza successo in Danimarca, come sta tentando di fare in Gran Bretagna 3Uk comprando O2 e in Italia 3 Italia e Wind, fondendosi. Unite, le Telco risparmiano: sulle costosissime antenne (sul traliccio che ne porta una, ce ne stanno anche due), sui costosi call-center, che possono essere utilizzati per più clienti, e su tante funzioni “umane” che prospetticamente potranno essere trasferite ai nuovi sistemi di intelligenza artificiale. È sempre andata così, nell’industria di massa: fondersi per costare meno e guadagnare di più. 

Fin qui tutto bene. Peccato che l’Antitrust europeo sospetti – malfidata! – che queste fusioni nascondano anche il desiderio di ridurre la concorrenza e far salire i prezzi. A tutto danno dei clienti. E stia quindi severamente alzando il muro delle pretese che vengono imposte alle aziende in cambio del “sì” alle auspicate fusioni. Pretese tanto pesanti da rendere assai meno convenienti le fusioni stesse.

Dunque, è possibile che tra alleanze inutili con gli Ott e le media company e fusioni tentate e fallite, le Telco debbano accontentarsi e continuare a guadagnare ciò che guadagnano oggi. Cioè tantissimo! Provare per credere: dite a Marchionne se un’azienda che ha il 39% di ebitda può considerarsi povera! E permettetegli di dirgli se per investire serve il 50% di ebitda! L’auto marcia al 15-20% di ebitda e deve, da sempre, strainvestire!