Ibm e Telecom Italia hanno annunciato un accordo che la stampa ha quasi ignorato ma rappresenta – non in sé, ma per il filone che rivela – una grande e straordinaria novità sul piano tecnologico, mentre sul piano sociale è una mina sotto migliaia e migliaia di posti di lavoro. L’accordo – come viene descritto nel burocratese delle multinazionali – consisterà nello “sviluppare congiuntamente soluzioni innovative basate su sistemi di intelligenza artificiale, per realizzare nuovi servizi nell’ambito del caring e dell’assistenza tecnica di Tim abilitati dalla piattaforma Ibm”.
Che cosa significa, in soldoni? Che utilizzando i potentissimi sistemi di intelligenza artificiale realizzati dall’Ibm – che è di gran lunga avanti ai vari Google e Facebook nella ricerca tecnologica vera e propria – sarà possibile a un grande operatore telefonico sostituire in buona parte personale umano con robot nelle funzioni più semplici dei call-center dedicate all’assistenza clienti.
La novità rivoluzionaria, lanciata nel 2011, consiste nella capacità dei sistemi della “generazione Watson” di capire il linguaggio naturale umano. La “generazione Watson” è una nuova configurazione di software costruita con le logiche dell’intelligenza artificiale e battezzata col nome del fondatore dell’Ibm, forse proprio perché rappresenta una rifondazione dell’informatica. Sono sistemi capaci di imparare da soli dai dati che vengono loro affidati, e quindi di elaborare conoscenze e addirittura prendere decisioni anche al di là degli input dati loro dai programmatori.
Il primo supercomputer Watson – realizzato da un’equipe di 25 scienziati ibm tra cui due italiani – sfidò appunto nel 2011 i campioni di Geopardy, cioè del telequiz più popolare degli Stati Uniti (una specie di “Eredità”) e li sconfisse: e questo Geopardy è completamente basato sui giochi di parole! Oggi Watson riesce a capire e parlare correntemente in inglese, spagnolo e giapponese, tra pochi mesi partiranno anche le funzionalità in alcune altre lingue tra le quali l’italiano.
Le applicazioni di queste nuove macchine sono infinite: tra un paio d’anni avremo il traduttore simultaneo incorporato in ogni smartphone, basterà parlare al microfono nella propria lingua e selezionare in quale lingua si desidera che la frase venga riprodotta nell’orecchio del proprio interlocutore per ottenerlo. Meraviglioso, dal punto di vista scientifico: è la maledizione di Babele che viene superata dalla conoscenza umana. Ma dal punto di vista sociale, questo cosa comporterà? Una devastazione di mestieri.
L’accordo Tim-Ibm è solo un primo passo e senza dubbio – a chiederglielo – le parti in causa garantirebbero che l’intelligenza artificiale applicata al call-center non verrà utilizzata per ridurre il numero degli occupati e abbattere il costo del lavoro, ma solo per trasferire alle macchine le funzioni più elementari e riqualificare il personale in modo da renderlo più competente ed esperto nella gestione delle pratiche complesse. Pie bugie. La verità è che il mestiere del call center, quello della “generazione mille euro”, del nuovo proletariato digitale a basso reddito e zero prospettive, si compone essenzialmente di funzioni basilari e despecializzate, ed è esperienza comune avere a che fare con operatori dal linguaggio impacciato, dalla grammatica sbilenca, dall’accento improbabile, che chiaramente si limitano a leggere frasi prestampate senza aggiungere alcun valore e senza sviluppare alcuna vera interazione con cliente. Per questi operatori di livello base non c’è futuro.
Ma è stupefacente che il potenziale socialmente devastante di questo tipo di operazioni non sia oggetto quotidiano di studi e di progetti difensivi da parte dei politici e, incredibile a dirsi, nemmeno da parte dei sindacati, a dispetto dei loro pletorici e inutili uffici studi. Che gli faremo fare ai ragazzi dei call-center resi superflui dai robot? Chi si azzarda a dire che li manderemo a produrre robot va respinto a quel paese senza esitazione: è una balla, non è mai stato così nella storia della tecnologia, e per ogni posto “di qualità” e di “intelletto” che nasce grazie alla tecnologia ne muoiono dieci di livello operativo che quella tecnologia soppianta.
E allora? Come dice giustamente il sociologo Domenico De Masi, il sistema dovrebbe “devolvere” tanta capacità di lavoro automatico nella riduzione dell’orario di lavoro umano a parità di reddito, cioè investire il valore prodotto dalle macchine non nella maggiore ricchezza dei proprietari delle macchine stesse, ma nel maggior benessere di tutti coloro che dall’attività di queste macchine sono direttamente o indirettamente toccati: i lavoratori soppiantati, che dovrebbero essere tutelati redistribuendo i carichi di lavoro tra tutti in modo da proteggere ciascuno; e anche i clienti, che potrebbero vedersi riconoscere sconti sui prezzi.
Invece, macché. Chi ci pensa ai futuri licenziati? Chi sta progettando soluzioni di welfare che evitino di farne un esercito di giovani zombie post-digitali? Quale Jobs Act li soccorrerà?