Qualche anno fa, l’allora presidente dell’Enel Piero Gnudi – oggi autorevole commissario dell’Ilva – fu chiamato davanti alla Camera dei deputati a rispondere, tra le altre cose, sul “saldo” economico che l’avventura del gruppo nelle telecomunicazioni con la fondazione di Wind e l’acquisizione di Infostrada dall’Olivetti aveva generato nei conti. Ebbene, Gnudi dovette confermare i calcoli degli analisti e ammettere – peraltro senza portarne colpa personalmente – che quel giro di giostra è costato all’Enel, e quindi a tutti gli italiani che pagano le bollette elettriche, la bellezza di 5 miliardi di euro. Diecimila miliardi di vecchie lire.
Fa oggi sinceramente piacere che il “nuovo corso” dell’Enel, guidato da un manager come Francesco Starace, in Enel dal 2000 (quindi a telecomunicazioni ampiamente fondate e anzi già in “odore” di cessione), abbia deciso di investire nuovamente nel settore. Con il progetto Open Fiber, un ambizioso e complesso piano di cablaggio del Paese in banda larga, affidato a un altro “usato sicuro” del management italiano, il bravissimo (anche se non più giovanissimo) Tommaso Pompei, che del decollo di Wind era stato il pilota. Fa piacere perché segna una scelta importante, qualificante per un gruppo a saldo radicamento pubblico: presidiare non tanto i servizi telefonici quanto la rete in banda larga, importante per il futuro del Paese quanto lo sono state le autostrade negli anni Sessanta.
Ma il passato qualcosa deve pur insegnare. Le dinamiche dissennate della privatizzazione di Stet e Telecom, imposte all’Italia dall’accordo leonino subito dal governo, tramite l’allora ministro Beniamino Andreatta, dall’Unione europea, rappresentata dal durissimo commissario Van Miert, hanno determinato forti ritardi nello sviluppo e nell’estensione della rete Internet. Bruxelles ci impose di privatizzare di tutto e presto. L’Italia perfezionò vendite di asset pubblici per quasi 180 mila miliardi di vecchie lire, quasi sempre svendendo aziende sane e redditizie, all’insegna di un furore ideologico che rimpinguò le casse delle grandi banche d’affari straniere e favorì spessissimo acquirenti internazionali.
In particolare, Telecom Italia, privatizzata malissimo, finì presto schiacciata dalla montagna di debiti determinata soprattutto (ma non solo) dall’Opa lanciata nel ‘99 dai cosiddetti “capitani coraggiosi” così cari all’allora premier Massimo D’Alema, e ha da allora dovuto giocoforza rallentare gli investimenti nella banda larga e solo da poco li ha ripresi con un’autentica lena. E così il governo deve oggi correre ai ripari con lo strumento surrogatorio delle gare per l’installazione della rete a banda larga anche nelle aree “a deficit di mercato”, peraltro riscontrandovi di solito solo le offerte della stessa Telecom (onore al merito del presidente Recchi dell’aver riscoperto in qualche modo un rinnovato ruolo pubblico per la ex-Sip).
Ma questo ritorno del “pubblico” nelle infrastrutture per le telecomunicazioni come va interpretato? Come una scelta tattica o strategica? L’Enel sta costruendo questa rete con l’idea di venderla, poi – come ha fatto con Wind – o per tenersela e gestirla, in chiave alternativa (sul piano della concorrenza) e integrativa (sul piano della qualità e diffusione dei servizi) rispetto alla rete di Telecom?
A giudicare da quanto finora ha dichiarato Starace, ma anche nella sede più impegnativa, cioè il Parlamento, stavolta i 2,5 miliardi che Enel si appresta a investire serviranno per creare una diversificazione strategica, cioè permanente. Mentre – a onor del vero – la diversificazione telefonica voluta con Wind e Infostrada dall’Enel di metà anni Novanta, non venne mai definita “strategica” dall’amministratore delegato che la ricevette in eredità dal suo visionario predecessore, Franco Tatò, cioè Paolo Scaroni. Che decise di disfarsene e anche rapidamente, condusse una sorta di gara e alla fine individuò nell’imprenditore egiziano Naguib Sawiris l’acquirente ottimale.
Forse lo fu per l’Enel – valutazione tutta da verificare -, ma certo non per Wind, che venne ulteriormente gravata di debiti (per supportare un’acquisizione “a leva”) che crebbero fino a raggiungere gli attuali 9 miliardi di euro, che di fatto ne frenano sia la capacità di generare reddito che di investire quanto sarebbe necessario. Anche perchè la successiva proprietà, a sua volta internazionale, che ha rilevato Wind da Sawiris, cioè il gruppo Vimpelcom, ha continuato a non alleggerirne il debito. L’azionista di controllo di Vimpelcom, cioè l’oligarca russo Mikhail Fridman, non ha finora scoperto le sue carte sulle sue intenzioni future, ma certo Wind ha cercato, con la fusione in corso con 3 Italia, di diluire il proprio debito in un ambito più vasto, senza che mai il suo azionista – pur immensamente ricco – abbia seriamente deciso di azzerare il debito che la frena.
In sostanza, quei 5 miliardi di euro persi da tutti noi, dallo Stato, sull’avventura di Wind sono stati un regalo a uno speculatore internazionale egiziano e a un capitalista di recente e discutibile origine. In questo senso, va dato atto al governo che, dando precedenza all’offerta di Enel rispetto a quella di Telecom per l’acquisizione di Metroweb, è sembrato voler sostenere la ricostruzione di una rete digitale strategica per il Paese, a controllo pubblico. Fino al prossimo ripensamento?