Dagli amici mi guardi Iddio: la rottura tra Vincent Bollorè e Silvio Berlusconi (dissimulata sotto i ridimensionamenti di circostanza: “Nulla di personale, è solo un dissenso tra Vivendi e Mediaset!”) è invece un evento clamoroso con pesanti implicazioni per il nostro Paese. La prima riguarda il mercato dei contenuti editoriali non solo televisivi; la seconda, quello delle telecomunicazioni; la terza coinvolge la stabilità del governo Renzi; infine, la quarta colpisce la credibilità del Sistema Paese, già scosso dal terremoto delle banche e ridicolizzato dalla decisione dei teoricamente renzianissimi Agnelli di portare in Olanda le (in tal modo calanti) tasse che pagavano in Italia, a dimostrazione che al “cambiamento di verso” sbandierato dallo Statista di Rignano non credono. Per questo, al di là delle parole pesanti corse tra de Puyfontaine, uomo di Bollorè e capo del colosso Vivendi che avrebbe dovuto comprare Mediaset Premium e ha rotto il fidanzamento, e i Berlusconi, lo scontro coinvolge indirettamente la vita quotidiana e gli interessi dello Stato e dei comuni cittadini. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di capire perché.

Innanzitutto ricordiamoci chi è Bollorè. Date per spese le parole di circostanza (bravo, dinamico, intuitivo, bla bla), questo signore ricava la stragrande maggioranza dei suoi utili non dalla pay-tv Canal Plus e dalle altre attività che controlla tramite Vivendi (dove peraltro possiede circa il 22%, quindi è socio di riferimento, ma non imprenditore nel senso proprio del termine), bensì dalla gestione della logistica e dei servizi nella maggior parte dei grandi porti commerciali africani. Detta così sembra niente, invece significa sapersi (e volersi) destreggiare con disinvoltura in Paesi contraddistinti da tassi di civiltà giuridica pressoché nulli, da criminalità pervasiva e corruzione a livelli multipli di quella pur rilevante del nostro. In altre parole, significa disporre di milizie private e avere un pelo sullo stomaco da farci le trecce. Chiaro?

Detto questo, cosa voglia precisamente Bollorè dall’Italia non è chiaro, e lui – a onor del vero – non l’ha mai spiegato: cosa che fa onore anche all’interessato, visto che di solito gli uomini affari più “anglosassoni” e meno levantini di lui spiegano ai mercati esattamente il contrario di ciò che pensano, Bollorè per lo meno tace. 

Quel che si sa è che i due capisaldi del suo potere economico in Italia – cioè il 9% in Mediobanca e il 25% in Telecom – l’ha certamente voluti (all’insaputa del proprietario nel nostro Paese si comprano solo gli attici al Colosseo), ma perché gli sono capitati, e non per una precisa ricerca strategica. Mediobanca se la ritrova essendosi prestato per anni a fungere da terminale di operazioni decise sopra la sua testa, in epoche in cui lui era un pesce piccolo, una pedina nelle mani di Antoine Bernheim e dei veri decisori di Banque Lazard. Diciamo che in questo senso Bollorè è un Ligresti francese riuscito bene, un “Frankenstein” inventato dal potere finanziario per coprire posti, che poi, complice il passaggio generazionale da una leva di banchieri forse odiosi, ma veri, a una leva di pallidi imitatori, si è ritrovato a occupare uno spazio cui neanche lui avrebbe saputo ambire. E Telecom, beh: è stata per Vivendi, all’inizio, una specie di lascito casuale della vendita della rete di telecomunicazioni brasiliana Gtv a Telefonica, ultimo atto di una serie di operazioni in cui la medesima Vivendi si era liberata dalle sue partecipazioni nei telefoni, non credendo alle sinergie tra la propria attività editoriale in Canal Plus e queste reti, salvo poi rientrare nei telefoni dalla finestra opportunistica di quell’8% di Telecom, offertogli come “saldo in natura” del pagamento di Gtv da Telefonica. 

Ritrovandosi però in tasca quell’8% di Telecom, e mancando tra gli altri soci dell’ex monopolista italiano qualcuno con uno straccio di strategia e due lire da spendere per contrastarlo, Bollorè ha avuto buon gioco a salire al 25% dell’ex Sip, ritrovandosene azionista di controllo senza opposizioni. A oggi, il finanziere bretone è in perdita di circa 1,5 miliardi di euro di valore borsistico, visto che il titolo Telecom da quando lui c’è entrato ha perso il 25%, ma in questo senso è possibile che presto recuperi, vista l’efficacia della mossa di mettere al vertice Telecom un cagnaccio efficiente come Flavio Cattaneo, che ha già molto migliorato le performance aziendali, tagliando costi e mettendo le strutture alla frusta.

Cosa resta ora fare, dunque, in Italia a Bollorè? Nel silenzio del protagonista sulle sue intenzioni, giocoforza affidarsi ai si dice, ancorché di ottima fonte.

1) Vivendi: vuole comprare Mediaset, è sempre stato chiaro a tutti salvo che – dicono oggi – ai Berlusconi, padre e figli. Mediaset Premium è stato, da parte del Biscione, un tentativo imprenditoriale coraggioso ma fallito. Era evidente che Vivendi non se la sarebbe mai comprata da sola, nonostante avesse millantato il contrario, se non per usarla come cavallo di Troia attraverso il quale prendersi poi la casa madre. Ma era proprio chiaro come il sole. Solo che oggi i Berlusconi non gliela vogliono vendere, la vera Mediaset. Lui potrebbe scalarla, magari proponendo al mercato – un po’ come ha fatto Cairo con Rcs – un’offerta pubblica di acquisto e scambio con cui dare soldi e azioni Telecom ai soci di Mediaset: il guaio per Bollorè è che per ora la Fininvest ha oltre il 34% della sua Mediaset, per cui nell’assemblea straordinaria dei soci ha la cosiddetta “minoranza di blocco”, senza il cui consenso non può essere approvata nessuna operazione straordinaria come l’adesione a un’offerta di acquisto. Insomma, oggi Mediaset non è scalabile senza il consenso dei Berlusconi. Forse per questo – e qui hanno ragione i Berlusconi a essere arrabbiati – Vivendi aveva candidamente controproposto, invece dell’acquisto di Premium, l’acquisto di un 15% direttamente in Mediaset che avrebbe diluito la proprietà dei Berlusconi ben sotto il 34%: figuriamoci se quelli accettavano. Cos’accadrà ora non è chiaro, un po’ perché Bollorè tiene ben coperte le sue intenzioni, un po’ perché i Berlusconi non sanno che pesci prendere, tra il vecchio patriarca ottantenne e malato, in parte orgoglioso della sua indipendenza in parte consapevole dell’opportunità di accasare l’azienda, e i più giovanili orgogli dei figli maggior Pier Silvio e Marina, ma anche l’opportunismo di decine di colonnelli manageriali che vogliono soprattutto salvaguardare i propri interessi.

2) Telecom Italia: qui la tattica di Bollorè è chiarissima, recuperare i soldi spesi, non nel senso di rivendersi l’azienda (non per ora, almeno), ma di vederla rifiorire in Borsa, e per far questo non guarda in faccia a nessuno. Ha dato al coriaceo Cattaneo – manager non renziano – carta bianca, e Cattaneo sta facendo quel che sa fare, strizzare i costi e mettere l’azienda alla frusta, modalità che, con buona pace dei montessorismi manageriali, di solito pagano. Non era previsto che Cattaneo si scontrasse così presto e duramente con il governo e la governativa Enel, che sta invece investendo seriamente sulle telecomunicazioni, ma lo fa perché è sicuro di vincere, e ha ragione: ai più sfugge l’abisso di opportunità competitiva che oggi divide Telecom da Enel Open Fiber. Telecom ha già 30 milioni di clienti sul mobile e 40 sul fisso, oltre a essersi appena alleata (senza comprarsela, ma l’effetto è simile) con Fastweb per la banca larghissima; Enel Open Fiber, pur guidata da un bravissimo manager come Tommaso Pompei e ispirata da un valido stratega come il capo del gruppo Francesco Starace, ha grandi potenzialità ma non immediate, e se è vero che domani formalizzando l’acquisto di Metroweb moltiplicherà queste sue potenzialità, resta vero che anche Metroweb non ha clienti diretti (non è il suo mestiere: fornisce fibra a chi ha i clienti!) e quindi l’avviamento commerciale di Enel nei telefoni è tutto da fare. 

Vendere anche abbonamenti telefonici a chi ha già l’abbonamento elettrico non è affatto scontato. Pochi ricordano che l’Enel ci provò già nel ’95 con Wind, e per quanto oggi Wind abbia 22 milioni di clienti, è costata ai conti Enel, tra l’avviamento e il finanziamento delle perdite, la bellezza di 5 miliardi. È vero che l’Enel è sostenuto dal governo, ma si tratta di un governo che in materia non capisce nulla e si è fatto sfuggire la possibilità – e il diritto, che pure aveva – di pilotare lo sviluppo della banda larga “sulla” rete Telecom e non “contro” la rete Telecom, prendendone magari il controllo in cambio della soluzione dei problemi finanziari ancora gravi della stessa Telecom. La Cassa depositi e prestiti s’è gingillata per anni col progetto e poi l’ha lasciato evaporare. Insomma, Telecom ha per la prima volta dopo il decennio infaustamente “confiscato” dalla gestione miope di Mediobanca e dai conflitti d’interesse di Telefonica, l’opportunità di tornare a brillare. 

3) La fusione Mediaset-Telecom. Anche de Puyfontaine ne ha parlato, ieri, indicandola come una possibile, ottimale, soluzione strategica per entrambe le aziende. La logica è chiara: se due grandi gruppi uniti vogliono comprare i diritti del calcio (la vera “polpa” del mercato dei contenuti audiovisivi, in un mondo dove il diritto d’autore non conta più quasi niente) o anche qualche serie di fiction occasionalmente e transitoriamente preziosa, possono mettere sul piatto non solo i soldi, che sarebbero tanti se Telecom e Vivendi-Canal Plus-Mediaset unissero le loro casse, ma anche l’accerchiamento di tutto il mercato possibile per quei contenuti. Per spiegare: un grande gruppo di telecomunicazioni fisse e mobili a banda larga, potrebbe trasmettere ai propri clienti in regime di esclusiva il campionato di serie A o la Champions League su tablet e smartphone; e un grande gruppo televisivo a esso alleato potrebbe offrirli dapprima criptati sulle sue pay-tv e successivamente magari in chiaro sul digitale terrestre. Senza concedere nulla a nessun concorrente (antitrust permettendo). Ecco perché avrebbe senso per tutti la fusione Mediaset-Telecom. Forse meno per la Lega Calcio o la Uefa, che non troverebbero alternative sul mercato per mettere all’asta i propri contenuti: ma tant’è.

4) Mediobanca-Generali. Il Sussidiario l’ha già scritto e riscritto, Mediobanca oggi è una banca d’affari come tante, non è più il salotto di niente, non è cabina di regia di niente, è gestita così così, l’unica perla che custodisce è il 13% delle Generali. Generali sì che fa gola a Bollorè. Meglio sarebbe se fusa con Unicredit, forse non a caso oggi guidata da un francese e bisognosa di capitali; e con la controllata Generali, che capitali ne ha, e pure è guidata, da un francese. In un solo colpo, si aiuterebbe Unicredit (con i soldi di Trieste) a ritornare al ruolo che merita, Mediobanca a ritrovare dignità pur fondendosi in un gruppo più grande da controllata e non più da controllante (nessun danno, visto che non conta più niente); e le Generali, pur spendendo qualcosa, accrescerebbero il proprio valore su livelli più ostici da scalzare per qualunque scalatore ostile. Un bel progetto, forse non così lontano come dicono gli scettici.