Insomma, il Jobs Act è stato utile a qualcosa oltre che alla propaganda positivista del governo Renzi? Più si allontanano le fragorose dimissioni post-referendum del ragazzaccio di Rignano e meno si capisce, a dispetto dei dati. Anzi: anche per colpa dei dati sul lavoro, che cambiano – o sembrano cambiare – a seconda di chi li dirama.
Ancora ieri, altra infornata di cifre, da fonte Inps, come sempre più severa nei confronti del governo. Vediamo subito l’unica notizia buona: le ore di cassa integrazione richieste dalle aziende nei primi undici mesi del 2016 sono diminuite del 15% rispetto allo stesso periodo del 2015. Segno evidente che quel po’ di ripresina – +0,9%, a quanto pare, ma anche i dati ballano ancora – è stata “anche” manifatturiera. Ma mettiamo via lo champagne, altri dati buoni non se ne trovano.
In particolare, emerge che nei primi 11 mesi del 2016 sono stati siglati 1.506.413 contratti a tempo indeterminato (comprese le trasformazioni di rapporti già esistenti, 360.823): dunque, poiché il numero dei contratti a tempo indeterminato cessati si attesta, sempre nel periodo in considerazione, a 1.440.424, il saldo positivo tra cessazioni e attivazioni è stato di appena 65.989, in calo del 90% rispetto a quello dei primi 11 mesi del 2015, periodo in cui vigeva ancora la decontribuzione totale per le assunzioni. Questo dato conferma la tesi di chi sostiene che l’incremento dei nuovi posti non c’entra niente con l’economia reale, ma è pura droga finanziaria inoculata dal governo con la decontribuzione nelle vene di un sistema che, appena finita la pacchia, ha smesso di assumere.
Una riprova sembra arrivare da altre cifre, relative ai licenziamenti disciplinari, quelli agevolati dalla sostanziale abolizione del mitico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che di fatto li rendeva impossibili. Nei primi 11 mesi del 2016 i licenziamenti totali sono ammontati a 561.862 in aumento del 4% rispetto a quelli dello stesso periodo del 2015: quest’aumento è nato quasi tutto dal forte incremento dei licenziamenti disciplinari, che passano da 53.056 a 67.374 (+27%). È ovvio: ormai licenziare è facile, quasi come nei Paesi anglosassoni.
Infuocato il commento della Cgil: “I dati confermano l’inefficacia delle riforme del mercato del lavoro di questi anni e l’assoluta necessità che il lavoro, buono e stabile, torni al centro delle scelte economiche del Paese”, dice la segretaria nazionale della Cgil, Tania Scacchetti. “Purtroppo devo dirmi pienamente d’accordo con la Cgil, anche da un punto di vista asetticamente tecnico”, commenta Gianluca Zelli, general manager di Humangest, tra le più attive delle società per i servizi al lavoro. “La decontribuzione”, spiega, “è servita a sanare determinate posizioni, ma non a creare nuova occupazione stabile significativa. Posso dirle che oggi, per assurdo, l’assunzione a tempo indeterminato è forse ancor meno immaginata di prima in Nord Italia, dove i contributi sono cessati. Al Centro-sud la decontribuzione ancora c’è, ma è bassa e ‘tira’ meno… Funzionano ancora bene le misure per i disoccupati over 50 perché è in vigore la norma ex-Fornero. Ma certamente non è finanziando il lavoro che si risolve il problema della disoccupazione, ormai è chiaro a tutti. Il vero problema è sul credito perché, non ottenendone più in misura adeguata dalle banche, le aziende non riescono più a investire”.
Secondo Zelli, invece, l’aumento dei licenziamenti disciplinari è un dato più complicato da leggere, “bisognerebbe capire l’anzianità dei lavoratori licenziati: se emergesse che tutti i licenziamenti disciplinari hanno colpito i nuovi assunti col contratto a tutele crescenti, allora sì che si potrebbe addebitare il fenomeno all’abolizione dell’articolo18. Ma non ne siamo sicuri, in base ai dati complessivi propostici. Aspettiamo di capire meglio…”. Già: e non sarà facile, nella permanente e sospetta guerra di cifre tra Inps e ministero del Lavoro.