Che cafonata citarsi! E vabbè, per una volta permettiamoci una cafonata. Era il luglio del 2015 quando sul Sussidiario scrivevamo, a proposito di Vincent Bolloré, la seguente descrizione: “L’altra faccia del finanziere bretone è quella di un signore con sullo stomaco setole d’acciaio, che come business prevalente finora del suo gruppo ha scelto la logistica mercantile nel continente nero (…). Un business che richiede nella migliore delle ipotesi – che sarà senz’altro quella di Bolloré, sia scritto a scanso di querele – la capacità di respingere le continue richieste di tangenti che arrivano dalle pseudo istituzioni africane; e nella peggiore delle ipotesi, che non riguarderà giammai l’immacolato Bolloré, richiede la disinvoltura necessaria per accordarsi sulle percentuali”.



Come stupirsi dell’avviso di garanzia che l’ha raggiunto, per la scalata a Mediaset, con l’ipotesi di reato di aggiotaggio? Per carità: la presunzione di innocenza non si discute, e questo giornale è garantista come pochi. Resta però il fatto che in quel caso – reato o non reato: decideranno i giudici – Bolloré ha sicuramente scelto la strada del “moral hazard”. Da una parte trattava notoriamente l’acquisto di Mediaset Premium; dall’altra, dopo aver dichiarato urbi et orbi, a reti unificate, che Mediaset Premium non valeva quel che gli era stato prospettato all’apertura delle trattative, scalava sottobanco la holding Mediaset! Il cui valore di Borsa era però drasticamente precipitato dopo le dichiarazioni francesi sull’asserita cattiva qualità dell’”asset” Premium, agevolandogli il rastrellamento…



Ai non addetti va chiarito che il reato di aggiotaggio è praticamente “impunibile”. In generale e nell’insieme oggi in Italia solo 228 sui oltre 54 mila carcerati hanno sentenze definitive per riciclaggio, insider trading, falso in bilancio, appunto aggiotaggio, fondi neri e corruzione. Un nonnulla. Ma in particolare l’aggiotaggio è considerato un “reato di pericolo presunto, e non di pericolo concreto”, nel senso che la sua esistenza non deriva dall’accertamento delle conseguenze, ma dalla verifica dell’intenzionalità. Se io diffondo notizie false e tendenziose per manipolare i prezzi di un titolo quotato e ciò non si verifica, sono colpevole comunque, a patto però che si dimostri che le notizie da me diffuse erano false e che le ho diffuse a quel fine, per quanto poi non conseguito. Quindi per arrivare a una condanna occorre dimostrare che le notizie erano false – e nel caso della Premium sarà possibile, ma non facile dimostrarlo – e che erano state diffuse tendenziosamente, anche questa tesi di difficile argomentabilità…



Per dire che non sarà certo una condanna di Bolloré a intervenire risolutivamente nel contenzioso che lo oppone a Berlusconi. Ben altri eventi precederanno, ovviamente. Anche perché i francesi, con un’arroganza che neanche Matteo Renzi, hanno replicato duramente alla notizia: “Questa iscrizione non indica in alcun modo un’accusa contro qualcuno. L’iscrizione nasce da un esposto senza fondamento e illegittimo depositato dai Berlusconi dopo la crescita nel capitale Mediaset”. Meritano un promemoria le parole di Berlusconi contro Bolloré alla fine dell’anno scorso: “Ci hanno fatto un ricatto, un’estorsione: di fronte a questa scalata ostile pensiamo di resistere, e crediamo che la magistratura debba dare seguito alla nostre cause, i giudici devo darci ragione”.

Insomma: più distanti di così le parti litiganti non potrebbero essere, ed è impensabile che la vicenda giudiziaria intervenga a togliere le castagne dal fuoco alla Fininvst. E dunque? Dunque, sotto banco – magari non proprio in questi giorni! – gli emissari dei due litiganti continuano a trattare. Anche perché da una parte c’è una Vivendi in cui Bolloré svolge il ruolo di azionista di riferimento, ma non di “padrone fondatore”, qual è invece tuttora Silvio Berlusconi in Fininvest. Gli italiani, insomma, sono oggi una famiglia in trincea; i francesi sono invece un’azienda “di sistema”, in cui oggi comanda Bolloré, ma domani potrebbe subentrare chiunque e al 99% l’atteggiamento non cambierebbe…

Altro sarebbe se in casa Fininvest questa crisi accelerasse un processo di autocoscienza e riforma. Il “male oscuro” del gruppo infatti non è, oggi, industriale. A non andar bene è solo Premium, ma il resto funziona. Le incognite sono tutte sugli assetti futuri. L’egotismo narcisista del Cavaliere, apparentemente ammaccato dagli acciacchi dell’età (80 anni compiuti e una cardiopatia) merita gli auguri del secolo di vita e oltre, ma il problema è che lui dà per scontata l’immortalità: o almeno, si comporta come se così fosse. Rispetto ad altri magnati del capitalismo – da Agnelli a Del Vecchio – che in presenza di quadri successori complessi per abbondanza (Del Vecchio) o penuria (Agnelli) di eredi, hanno predisposto in tempo utile gli avvenimenti successivi alla loro in fondo inevitabile dipartita (tutti dobbiamo morire), Berlusconi non ha predisposto un fico secco. Ispirandosi, si direbbe, più che altro al modello Caprotti, defunto senza pace con gli eredi, che stanno oggi litigando sul tema se vendere (come il padre forse avrebbe fatto personalmente, nel caso in cui fosse sopravvissuto) oppure no. E l’azienda Mediaset, per quanto sana, non sembra tanto brillante al punto da poter, un domani, “sfamare” senza problemi i cinque figli di due letti.

Dall’altra parte l’”istituzione Vivendi” ha tempo da vendere, e nessuna fregola: come non l’ha avuta in Mediobanca. Il tempo gioca dunque contro i Berlusconi e Bolloré l’ha imparato in Africa: “L’uomo fa dei progetti, la morte ne fa altri”, dice un proverbio tanzaniano (parola di aforisticamente.com: sarà vero o sarà fake?)

Intanto, l’impressione è che il colosso televisivo italiano sia una specie di gorilla nella nebbia, costretto sicuramente a replicare in qualche modo alle non-preannunciate mosse del gruppo Vivendi per arginarle ma privo di una strategia lucida per farlo, che quindi può solo appellarsi alla magistratura ordinaria (appunto) e all’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, cercando al di fuori del mercato quelle difese che ormai in Borsa non può più trovare. A mancare è infatti l’antica, impareggiabile imprenditorialità di Berlusconi padre, quella che gli ha permesso di costruire oggettivamente dal nulla un impero da 50 mila dipendenti. Quella che lo ha spinto a scendere in politica – sbalordendo tutti e vincendo, e segnando il Paese per vent’anni – per salvare l’azienda dai debiti e dalla morsa delle inchieste giudiziarie, più o meno speciosamente condotte. Ma oggi chi potrà mai fare lo stesso?”. Doppio errore: ci siamo nuovamente autocitati, ripetendo stavolta frasi di sei mesi fa. Come dire: l’avviso di garanzia a Bolloré non cambia niente.