Come spesso capita, purtroppo, alle notizie veramente importanti, è passata sulle cronache come se niente fosse: Telecom Italia ha annunciato ai mercati che per i prossimi tre anni non distribuirà i dividendi agli azionisti ordinari. Avete letto bene? Per un’azienda in attivo, anzi in forte attivo, è una notizia-bomba. E anche una notizia edificante. E ancora, è una notizia sorprendente perché dimostra – anzi conferma – che in una grande azienda la forza e la visione del management può perfino prevalere sugli interessi dei soci che l’hanno insediato. Ma proviamo a spiegarlo, perché questa notizia è importante, e a contestualizzarla nella situazione complessa, per non dire difficile, del settore delle telecomunicazioni nel mondo e ancor più in Italia.
Diciamo innanzitutto che la Telecom del primo bilancio “firmato” dal nuovo amministratore delegato Flavio Cattaneo va bene, anzi benissimo. Ha conseguito in un anno i risultati preventivati per tre (come ha sottolineato il presidente Giuseppe Recchi). Ha quasi eguagliato il fatturato dell’anno scorso, chiudendo a 19 miliardi, in calo di “solo” il 3,5% (cioè 6 punti percentuali meglio dell’anno scorso), e incrementando l’ebitda del 13% a quota 8 miliardi. 8 miliardi sono il 42% del fatturato: una percentuale astronomica, a confrontarla con quanto rende, a livello di margine industriale, un settore industriale “classico” come quello dell’auto, che quando arriva al 20% di ebitda brinda a champagne.
Certo, buona parte di questo utile lordo viene eroso dalla necessità di pagare gli interessi sul debito-monstre che ancora grava su Telecom (25 miliardi), retaggio ancora insanato della scalata “a leva” subìta diciotto anni fa, e rimborsarne una fetta. Il direttore finanziario Piergiorgio Peluso ha chiarito che tra tagli e risparmi vari, il rapporto tra i margini e il debito arriverà a 2,7, un livello giudicato sostenibile dagli analisti. Comunque è un utile altissimo. Ma allora perché non pagare il dividendo, tenendo a stecchetto gli azionisti?
Per investire. Undici miliardi di euro da qui al 2019. Di cui 5 sulla fibra ottica: cantieri ovunque, squadre di operai all’opera, forniture industriali, lavoro. A fine piano, la copertura “mobile” del Paese avrà raggiunto il 99% della popolazione con il 4G e 4 milioni di famiglie saranno raggiunte dalla fibra per la banda ultralarga a 100 mega. E non sarà finita: perché avrà inizio l’era del 5G, già partita negli stati europei più avanzati. Ciliegina sulla torta, i piani di TimVision: potrebbe concorrere alla prossima asta per i diritti sul calcio del campionato e anche della Champions, ovviamente per quanto riguarda Internet.
È qui, nell’entità degli investimenti, la straordinarietà della notizia. Che va ulteriormente spiegata: Telecom vuole investire perché la concorrenza incalza. Sul mercato della banda larga fissa è sceso l’Enel, con la poderosa operazione “Open fiber”… e su quello della banda larga mobile sta entrando Iliad, il colosso francese della telefonia “low-cost”, chiamato in Italia direttamente dall’Antitrust europea, per controbilanciare il potenziale rialzo dei prezzi minimi implicito nella fusione, attiva dal 1° gennaio, tra Wind e 3 Italia, ovvero i due operatori più economici per i clienti, che fino all’anno scorso per farsi concorrenza tenevano le tariffe basse. Ora, a questo compito, salutare per qualsiasi mercato, provvederà appunto Iliad, la “RyanAir” dei telefoni. E saranno dolori per tutti.
Ma Telecom reagisce, e lo fa nell’unico modo possibile, investendo per eccellere e mantenere quote di mercato e clienti, a dispetto dei nuovi concorrenti che la minacciano sul fronte delle dimensioni, appunto la neofusa Wind-3, sul fronte della qualità dell’infrastruttura, appunto Open Fiber, e sul fronte dei prezzi, appunto Iliad. Vivaddio, qualche volta il mercato funziona.
Il corollario ancora da chiarire è che l’azionista di riferimento di Telecom è la francese (un’altra!) Vivendi, controllata dal magnate Vincent Bollorè, incautamente fatto entrare vent’anni fa nel mercato italiano da Mediobanca di cui è peraltro il maggior singolo (e “nerboruto”) azionista. Questo signor Bollorè ha sicuramente fatto buon viso a un (per lui) cattivo gioco imposto dal management di Telecom perché tutta la sua storia imprenditoriale dimostra che non è per niente il tipo di azionista che sacrifica la sua tasca agli interessi a lungo termine delle aziende che controlla. È uno che – ricordiamolo – trae il grosso dei suoi utili da un business che non è precisamente per educande (gestisce la quasi totalità dei traffici mercantili marittimi del Nord Africa, un mestiere da milizie private a vigiliare su controparti e contesti border-line tra lecito e illecito). È uno che ha mandato all’aria un contratto d’acquisto su Mediaset Premium e ha approfittato del crollo del titolo della casa madre Mediaset per scalarsela a buon mercato e puntare una pistola finanziaria alla tempia della sua controparte, ed ex-alleata. Insomma, dire che ha pelo sullo stomaco non può essere considerato offensivo. Ebbene: Bollorè resterà a digiuno per tre anni. Per decisione di un management che ha appena scelto. Sai com’è contento.
Fin qui gli aspetti positivi e innovativi di quest’operazione. Restano, tutte, le incognite: basteranno gli investimenti? Reggeranno le tariffe? Risponderanno gli utenti? Le risposte arriveranno col tempo, ma intanto il mercato ci crede, pur capendo – da tutte le convulsioni vissute dagli operatori negli ultimi tempi – che le vacche grasse telefoniche appartengono a un’epoca definitivamente archiviata. Cattaneo si merita un bravo. Peccato sia così antipatico. Ma non si può avere tutto.