Ingmar Bergman, nome invero tra i più importanti della storia del Cinema, riscuote ormai nel pubblico contemporaneo – quella parte di esso che l’ha almeno sentito nominare – fama di sola memoria indiretta, vaga in quanto generica.
Lo stesso non si può dire del suo film Il silenzio, di cui ricorre oggi il sessantesimo anniversario dell’uscita. Questo è infatti pressoché sconosciuto ai più, mentre risulta ben noto e apprezzato da quei pochi estimatori rimasti, per ragioni soprattutto anagrafiche, del regista svedese.
Ricordare un film simile oggi, assegnandogli per giunta un giudizio positivo, significa sfidare apertamente le leggi dell’estetica e della poetica contemporanee, quelle che hanno ridotto il cinema a puro intrattenimento per impazienti adulti con spirito da adolescenti.
Il silenzio è infatti film tutto giocato su ellissi narrative, sospensioni di azioni e significato, allusioni simboliche di taglio junghiano, quindi archetipiche, costruito non secondo la consueta struttura dei tre atti (intro, svolgimento e soluzione) e dei due “colpi di scena” che la caratterizzano, ma con un impianto di tipo orizzontale, funzionale a esporre il mondo interiore dei protagonisti e i rapporti tra loro senza fornire coordinate preconcette allo spettatore. Per di più girato in bianco e nero, cosa che notoriamente sconvolge lo spettatore medio di oggi, inducendolo a considerare il prodotto così confezionato come vecchio, quindi superatissimo, obsoleto, indegno di attenzione.
La storia del film, se di ciò si può parlare, è singolare. Due sorelle e il figlio adolescente di una di esse si trovano di passaggio in un Paese sconosciuto, dove si parla una lingua incomprensibile (inventata per l’occasione) e pare esserci una rivolta militare. Ester, la maggiore, è malata di tubercolosi e alcolizzata, così che la compagnia deve soggiornare in un fatiscente albergo. Qui, nel più classico dei silenzi assordanti, implodono risentimenti e pregresso astio tra le due sorelle. E mentre la salute di Ester sembra peggiorare, la più giovane Anna cerca e trova avventure sessuali, e il di lei figlio Johan si abbandona a fantasie edipiche prima di intrattenersi nei corridoi dell’albergo con una compagnia di nani da circo (colpevole ammiccamento felliniano). E così via fino alla conclusione aperta, sospesa del film.
È consuetudine storiografica assodata, avallata dallo stesso Bergman, considerare Il silenzio come capitolo conclusivo della trilogia cosiddetta de “l’assenza di Dio”, che comprende anche Come in uno specchio (1961) e Luci d’inverno (1963). Tutti e tre girati nella magnifica e luminosa fotografia in bianco e nero del maestro Sven Nykvist (utilizzato anche da Woody Allen in alcuni dei suoi tentativi bergmaniani). Tutti e tre caratterizzati da una messa in scena scarna quanto elegante, che privilegia i vuoti di immagine come di senso, anche se Il silenzio è forse il più sobrio e rigoroso, ellittico fino ai limiti dell’ermetico. In un tale contesto scenico, prende forma l’interpretazione secondo cui le differenti personalità delle due sorelle potrebbero essere viste come due aspetti della stessa personalità: l’una è l’intellettuale, la lucidità e la malattia; l’altra la trasgressione, la superficialità e la sensualità del desiderio. In ultima analisi una dualità propria dello stesso Bergman, che in tal modo mette a nudo se stesso.
Prima della dell’uscita della versione in dvd, in Italia era stata distribuita una versione pesantemente compromessa dalla censura nonché dalle storpiature del doppiaggio. Un esempio per tutti: nel finale, quando Johan legge un messaggio lasciatogli dalla zia Ester, pronuncia chiaramente la parola “anima”, assente nell’originale, dando così un’interpretazione spiritualista del film completamente inventata, lontana anni luce dalle intenzioni dell’autore.
Il silenzio, pur non essendo il Bergman più indovinato né il più celebre, si inserisce perfettamente nell’estetica complessiva del corpus della ampia Opera del regista svedese. Una filmografia caratterizzata da sceneggiature degne dei migliori testi letterari, storie filmate con immagini di grande forza figurativa, dense di significati. Basti pensare alla scena della partita a scacchi tra il cavaliere crociato e la Morte ne Il settimo sigillo (1957).
Come detto, il film rappresenta la chiusura della trilogia del silenzio/assenza di Dio, tris di pellicole accomunate dalla tematica suddetta ma ovviamente indipendenti sul piano narrativo. Bergman, ateo dichiarato (definito da qualcuno “ateo cristiano”), ha spesso affrontato nelle sue opere i temi universali del trascendente, del divino e della sua manifestazione e/o influenza sulla condizione umana. Come accaduto ad altri famosi autori atei (Luis Bunuel e Pier Paolo Pasolini su tutti), Bergman risolve la questione sospendendo il giudizio sul piano poetico/narrativo, lasciando all’apparato linguistico-visivo del Cinema il compito di mostrare artisticamente il disagio dell’Uomo in cerca di un divino che pare sfuggirgli, pare sottrarsi alla sua ansiosa ricerca, ma che in fin dei conti si ritrova nel fascino immortale della Settima Arte stessa.
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