“Se i vari movimenti che a vario modo incarnano i princìpi del popolarismo decidono di sfidare la storia, potrebbe prendere forma una forza politica che punti ad essere il punto di equilibrio per accompagnare il Paese in questa fase di profonda trasformazione generata dalle crisi epocali, sanitaria e di sicurezza, che ci attraversano. Abbiamo bisogno di un pensiero sulla transizione e sulle trasformazioni che ci aspettano. E i Popolari potrebbero essere una delle possibili guide”.
Con Giuseppe De Mita – avvocato e consulente, già vicepresidente della Giunta regionale campana e poi deputato nella XVII legislatura – si parte dall’identità dei Popolari per tracciare una traiettoria di giudizio che parte dall’attualità (dal Covid alla guerra in Ucraina), attraversa i grandi temi (come il futuro dell’Europa) e tocca ovviamente le questioni legate al Sud, in particolare la Calabria, e le sue possibilità di riscatto. E proprio per il fatto che oggi De Mita lavora presso la Regione Campania quale responsabile del cruciale Nucleo per la valutazione e verifica degli investimenti pubblici, in particolare legati al Piano nazionale di ripresa e resilienza, non può mancare anche un giudizio sul vero rischio che non si deve correre con il Pnrr: “Stiamo scoprendo con il passare dei giorni come il Pnrr senza una coscienza del passaggio rischia di essere una massa di risorse impiegata senza scopo, e dunque senza risultati sostanziali”.
Che significato ha, nella politica italiana di oggi, l’espressione “popolare”?
Credo che il significato più immediatamente attribuito all’espressione “popolare” sia di carattere generico, di qualcosa che ha a che fare con il popolo. Purtroppo e per fortuna, un significato di natura più strettamente identitaria sotto il profilo culturale è, per varie ragioni, meno presente.
Perché “purtroppo” e “per fortuna”?
Purtroppo: perché invece i Popolari avrebbero qualcosa da dire in questo tempo ad un pezzo della nostra società. Per fortuna: perché siccome tra gli addetti ai lavori se ne fa un uso ancora troppo ambiguo e strumentale, forse è un bene che per il momento prevalga un significato generico per questa parola. Insomma, la linea di discrimine sul significato della parola potrebbe essere nel suo utilizzo, come sostantivo o come aggettivo. Come sostantivo è un pensiero che si fa azione. Come aggettivo rischia di essere un orpello che si fa arredo.
Qual è, oggi, l’identità dei Popolari?
L’identità è un incrocio tra l’anagrafe e i comportamenti. Non basta somigliare a mio padre se tuttavia mi comporto fuori dai suoi insegnamenti. La radice storica ha una sua ragione nella misura in cui ci propone una cassetta degli attrezzi per risolvere i problemi del presente e indicarci una via di speranza per il futuro. In questo tempo di domande appese, l’identità sta più nella qualità delle soluzioni che nella celebrazione del passato. Potrei esprimere l’identità dei Popolari con una frase insieme oscura e illuminante: il centro delle questioni è la persona umana. Se può apparire un’evocazione generica e vaga, nella pratica quotidiana è una opzione eversiva.
Pandemia e guerra ci stanno rimettendo davanti agli occhi alcune cose che, nella rapidità degli eventi e delle illusioni, erano scomparse.
A cosa si riferisce?
Il punto di partenza dell’azione politica non sono le politiche di bilancio, il sistema dei consumi, le spinte imperialiste, che subordinano l’istanza delle persone all’affermazione di un modello o di uno schema. Così come non è punto di partenza l’accettazione acritica e avalutativa di tutte le istanze della società senza una scala di valori morali. La pratica quotidiana ci ha messo davanti a scelte che avrebbero implicato un’analisi e una spiegazione: in una crisi pandemica mondiale, prevale il diritto alla salute, quello allo studio, quello al lavoro, quello alla mobilità? In una condizione di guerra, la risposta è il rilancio degli imperialismi? Sono questioni che hanno bisogno di essere organizzate in un ordine possibile, ma in un ordine che sia di sapore morale; non nel senso di verità rivelata o confessionale; al contrario, in un ordine che consideri la vita, la sua dignità e la sua qualità per tutti, il centro della discussione.
Non teme che, dati i tempi molto condizionati dai social, i Popolari possano essere confusi con gli eredi della Dc?
È un rischio che non vedo. La Dc e i Popolari sono abbastanza lontani nel tempo per essere rievocati. Peraltro, storicamente la Dc aveva al proprio interno una pluralità di identità, tra le quali i Popolari sono stati per certi versi minoritari, pur essendo stati ispirati dal popolarismo alcuni dei suoi leader principali. Il popolarismo è stato un presupposto teorico della Dc, ma non un’espressione organizzata.
La discussa “missione” di Salvini in Polonia è una riprova che il Centro moderato può avere più successo elettorale, dopo due anni di pandemia e una guerra che sta producendo morti e tragedie umane, anche mettendo in evidenza i limiti del processo di unificazione europea?
La missione di Salvini prova principalmente il fallimento della Seconda Repubblica, a cosa si sia stata ridotta la politica in Italia e quale sia il grado di comprensione della rilevanza della politica estera sulla politica interna di un Paese. In sé la missione è patetica e grottesca, quello che è tragico è il pressapochismo con il quale sono stati espressi elogi a Putin in passato, ignorando le questioni che la sua politica avrebbe posto all’Italia. Certo il suo comportamento, come quello di altri politici in queste ore drammatiche, rinvia al senso di smarrimento di intere aree sociali del Paese, prive di riferimenti politici che possano offrire loro una spiegazione delle cose e una soluzione a problemi complessi.
In modo impietoso la realtà ci sta dicendo quanto populismo e demagogia siano una via pericolosissima?
Sì. L’Europa, come ci stanno dimostrando i fatti, non andava abbattuta, ma costruita nella sua completezza con due tasselli dei quali in queste ore si avverte l’urgenza: debito comune e difesa comune. Credo però che questo smarrimento sociale sia una domanda che non contiene in sé una risposta scontata e automatica: il Centro moderato. Si tratta di un disagio che va organizzato. Forse anche evitando formule geometriche, come la parola “Centro”, e termini inattuali, come la parola “moderato”.
Con la guerra e il conseguente inasprimento della crisi economica, che cosa cambia nella geografia politica italiana, anche in rapporto all’evoluzione dell’Unione europea?
C’è da attendersi che emerga, anche se in maniera non ancora maggioritaria, un umore sociale che guardi con sospetto e diffidenza l’approssimazione di contenuti, la superficialità di analisi e l’eccitazione dei problemi senza offrire risposte precise. È un moto sociale fisiologico, già registrato con Ciampi e con Monti prima di Draghi. Questa istanza ha bisogno di non essere tradita o strumentalizzata. Non escludo infatti che nell’immediato avremo una resistenza delle posizioni di radicalismo populista a destra come a sinistra. Ma sarà il terreno della realtà ad imporre una selezione. E probabilmente la mondializzazione dei problemi renderà la questione europea un vero discrimine. Adesso non si può rinunciare all’Europa. Nemmeno la si può continuare a subire nella sua costruzione sghemba e iperburocratica. Occorre un’Europa dei popoli e delle persone.
Come si pongono i Popolari rispetto al governo Draghi e all’ipotesi degli Stati uniti d’Europa?
Personalmente ritengo l’esperienza del governo Draghi un’opportunità e un rischio, a seconda di quello che sarà lo sviluppo degli eventi. È un’opportunità, nella misura in cui, grazie alla sua autorevolezza, ha aperto il varco per la messa in discussione dei vincoli di bilancio del Patto di stabilità e l’introduzione di strumenti per la condivisione del debito. È un rischio, nella misura in cui dovesse consolidarsi la tendenza a ritenere che quando i problemi diventano seri siano i tecnici e non la politica a doverli affrontare: ma questo, sia chiaro, dipende dalla scarsa qualità della politica.
Qual è la sua opinione sulla guerra in Ucraina e sulla cessione di armi, da parte dell’Italia, alle autorità governative ucraine?
Credo che sia obbligatorio partire da un punto preciso: c’è un aggressore che ha invaso uno stato libero e indipendente. Tutte le considerazioni, che pure si ascoltano sugli errori e le provocazioni della Nato, non possono bilanciare e giustificare quello che sta accadendo. Credo che quanto prima si debba diventare collettivamente consapevoli che la Russia non si fermerà all’Ucraina, ma andrà oltre. Più saremo cedevoli adesso, più il problema si ingrosserà nel futuro prossimo.
Come uscirne?
È complicatissimo venirne fuori, anche per la sostanziale indisponibilità alle trattative. C’è da sperare che quanto prima la via diplomatica porti ad uno sbocco. Ma, ripeto, l’equilibrio internazionale è mutato in modo irreversibile. Dobbiamo prepararci ad una condizione diversa sul piano della difesa e della politica estera europee. In questo quadro l’invio di aiuti, di ogni tipo, all’Ucraina è una solidarietà dovuta e una necessità inevitabile.
Quale può essere il ruolo dei Popolari per il futuro governo del Paese?
Se i vari movimenti che a vario modo incarnano i princìpi del popolarismo decidono di sfidare la storia, potrebbe prendere forma una forza politica che punti ad essere il punto di equilibrio per accompagnare il Paese in questa fase di profonda trasformazione generata dalle crisi epocali, sanitaria e di sicurezza, che ci attraversano. Abbiamo bisogno di un pensiero sulla transizione e sulle trasformazioni che ci aspettano. Stiamo scoprendo con il passare dei giorni come il Pnrr senza una coscienza del passaggio rischia di essere una massa di risorse impiegata senza scopo, e dunque senza risultati sostanziali. I Popolari potrebbero essere una delle possibili guide.
Quali sono i progetti dei Popolari per il breve periodo e per le elezioni politiche dell’anno prossimo?
Sta crescendo una consapevolezza: dobbiamo essere presenti. Occorre impegnarsi per indicare una strada. Dobbiamo essere presenti con una nostra specifica e precisa posizione. Senza calcoli sulle leggi elettorali. Forti delle nostre idee e della nostra passione. Il bipolarismo non esiste più. Dunque, non siamo più chiamati a scegliere il meno peggio, ma a puntare su noi stessi.
Come mai avete interesse per la Calabria?
Personalmente per tante ragioni. Affettive: trascorro qui le mie estati dal 1978. Qui ho conosciuto mia moglie. Qui ho i miei ricordi più nostalgici e felici. Personali: la mia famiglia ed io siamo legati alla Calabria e a tanti calabresi, come credo molti sappiano. Di affinità geografica: è uno dei tanti Mezzogiorno, nei quali sono convinto che il risveglio di un protagonismo dei soggetti sociali possa portare cambiamenti più solidi di qualsiasi infrastruttura. Infine politiche: è una realtà nella quale potrebbe nascere un’esperienza ricca di umanità e di prospettive politiche.
Pensate di radicarvi nelle province calabresi?
Ce lo auguriamo. Stiamo portando avanti da tempo, grazie soprattutto all’impegno e alla dedizione di alcuni amici saggi e dinamici, una serie di iniziative volte soprattutto alla costruzione di reti, umane e politiche, e meno alla promozione e alla propaganda. Una sorta di tempo della semina. Arriverà, spero presto, il tempo del raccolto.
Come vi state muovendo in Calabria, sul piano organizzativo e programmatico?
Come ho appena detto. Abbiamo di fatto adottato una modalità di percorso politico che si fonda sulla conoscenza, la fiducia, la verifica e i fatti. Lasciando poco spazio a promesse e propaganda. Una sorta di via umile, ma determinata. Spieghiamo, proviamo a indicare risposte e percorsi. Non ci autocelebriamo e non denigriamo. Ed è oltre un anno che procediamo lungo questo percorso. Qualcuno non ha avuto pazienza. Qualcun altro si è incuriosito e appassionato. Credo che questo percorso ci abbia adesso portato ad un punto nel quale occorra fare qualcosa di più.
Considera la Calabria un laboratorio politico?
Credo di averlo detto prima: considero la Calabria un possibile laboratorio. Le volte che sono stato qui ho incrociato nelle persone un desiderio di fare meglio, di spingere il cambiamento più in avanti, a partire da sé stessi. Questa spinta può produrre a volte una forza impensabile.
Su quali temi potrebbe svilupparsi, in Calabria, la politica dei Popolari, tenuto anche conto dell’elevato astensionismo alle ultime Regionali dello scorso autunno?
Ma l’astensione non è uno sbaglio dell’elettore: è un’incapacità e una sconfitta della politica. In Calabria, come forse altrove, si ha la sensazione che sia stata logorata la speranza. Per citare uno scrittore franco-rumeno: alla disillusione si è sostituito il disincanto. Ci sono tante questioni e tutte a loro modo significative e rilevanti. Tuttavia, a me pare che i temi sui quali poggiare un’iniziativa politica in Calabria possano essere sostanzialmente due: i servizi alla persona e il contesto di relazioni geopolitiche.
Provi a spiegarlo meglio.
L’esplosione dei diritti della persona ha trasformato il terreno della loro tutela da forma di esercizio della statualità a riconoscimento della dignità personale. La modernità nelle sue forme più avanzate è esaltazione della dimensione soggettiva, sino al punto limite della confusione del desiderio con il diritto. Tuttavia, al di là delle degenerazioni di questo fenomeno, è oggettiva la circostanza che in questo ambito si annida la dimensione del benessere e della realizzazione della persona quale individuo unico e irripetibile. Per questa ragione l’organizzazione e l’erogazione dei servizi alla persona non può restare arretrata, pena l’esasperazione di una percezione che non è solo più di arretratezza, ma di scarsa considerazione della dignità umana. Se Amazon porta sino alla contrada più remota della Sila il mio ultimo capriccio, non posso attendere mesi per una visita medica.
Non crede che l’eccessiva burocratizzazione faccia un po’ da freno?
Le forme di tutela di questa dimensione della personalità hanno bisogno di collocarsi fuori dall’ambito burocratico che in taluni casi è arrivato a cancellare il bisogno perché estraneo alle procedure sindacalizzate. Questa ripresa di contatto con la realtà tra bisogno e tutela apre lo spazio alla presenza della comunità, e dei suoi soggetti, come terzo pilastro nell’usuale alternativa tra Stato e mercato. In altri termini, per i servizi alla persona, oltre alla risposta amministrativa, spesso in affanno, e a quella del privato, che a volte specula sul bisogno, va recuperata la risposta della comunità nelle sue forme di organizzazione e partecipazione: associazionismo, volontariato, cooperative, imprese sociali di comunità. E cioè in quelle presenze che trovano come compenso della tutela la gratificazione umana e solidaristica, che non è detto che non possa anche avere un suo rilievo economico.
Un’altra questione rilevante?
Il mondo delle relazioni esterne. La proiezione in un contesto più ampio, con tutte le sue conseguenze di mimesi, di distinzione, di comparazione apre ad una quantità di opportunità che sono generative di movimento. E credo che la Calabria, come molte realtà, abbia bisogno di recuperare dinamismo. E poi una vecchia lezione ci dice che quando un problema appare irrisolvibile in relazione agli elementi noti, occorre allargare lo spazio e cercare così nuove soluzioni.
Ritiene che ci sia una questione meridionale attuale, dal punto di vista strutturale e anche geopolitico?
Credo di sì. Anche se connotata da una molteplicità di elementi inediti rispetto al passato. Esiste certo ancora una questione Nord-Sud. Per affrontare la quale, però, proverei a uscire dalla trappola psicologica della richiesta di riduzione del divario e affronterei a pieno viso la questione dei livelli essenziali delle prestazioni, anche se non si è rivelata la migliore delle formule. Ma esiste anche una questione meridiana che riguarda il Mediterraneo e la sua necessaria centralità nell’equilibrio post-bellico. Sono entrambe questioni nazionali. Anzi, la seconda è questione europea.
Come conciliare una politica di lungo respiro con le esigenze immediate degli italiani, a partire dal caro bollette e dall’aumento del prezzo dei carburanti?
Le due questioni coincidono. Ce lo dicono le esperienze recenti. Senza un orizzonte lungo, oltre che largo, le questioni quotidiane, come le si affronti, hanno soluzioni incerte e precarie. Proprio la questione energetica ce lo segnala. Abbiamo fatto in passato scelte emotive. Non dico sbagliate, ma emotive e senza il necessario approfondimento. Abbiamo ritenuto che le questioni dell’approvvigionamento energetico fossero secondarie e comunque risolvibili in un modo che non interessava capire. Un po’ come le questioni ambientali. Nell’immediato è necessario un intervento del governo: sul tetto dei prezzi e sull’incidenza della tassazione. In prospettiva, occorre che stabiliamo quanta energia ci serve e come garantiamo questo fabbisogno, responsabilizzando tutti.
(Emiliano Morrone)
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