Ascoltare durante i giorni della crisi di governo l’intervento al Meeting del presidente dello Svimez, Adriano Giannola, dà la misura dell’incredibile distanza tra i problemi reali e i problemi politici che oggi affligge la Repubblica italiana. Semplificando forse troppo le cose, si potrebbe dire che, mentre a Roma si discute su chi dovrebbe governare, a Rimini si parla di ciò che si dovrebbe fare. Ciò accade ogni qual volta l’opinione conta più della verità.
È un tema antico e affascinante (però, nessuno legge più il Teeteto di Platone), ma in fin dei conti è anche un argomento semplice: nei sistemi politici di massa, conta soprattutto convincere e per farlo non serve dire la verità. Oggi la cultura dominante è, rispetto allo sguardo verso l’uomo e la società, un surrogato dell’antico scetticismo: poiché guardando la stessa cosa ognuno la vede in modo diverso, si è revocato il nesso tra il discorso e la cosa, per cui è utile la parola che ha la maggioranza, non quella che si approssima di più al vero.
Giannola ha smascherato con durezza concettuale e leggiadria argomentativa (ma anche con adozioni linguistiche dai registri medio bassi della lingua: ha parlato di “balle”) decenni di egemonia culturale del Nord Italia, fondata sulle falsità sul residuo fiscale e su una lettura faziosa e capziosa dei Conti pubblici territoriali. Ha detto, col sorriso sulle labbra, che un ministro della Repubblica in carica (non è la prima volta e anche quelli di centrosinistra hanno praticato questo sport) ha diffuso dati parziali e costruito una politica nazionale per favorire una sola parte del Paese (cioè ha detto mezze balle per favorire gli uni a discapito degli altri).
In altri contesti, sarebbe bastata l’evidenza delle cifre diffuse dallo Svimez per determinare una crisi politica profonda; in Italia no, perché la società si è così abituata alla menzogna, che non chiede che si dica la verità, ma che si dica una menzogna convincente e ad alto tasso di identificazione.
Ciò introduce un tema che è rimasto laterale nella tavola rotonda cui Giannola ha partecipato (Meeting 2019, I giorni del Sud, domenica 18 agosto): il rapporto tra il Nord Italia e il Sud Italia è un rapporto sbilanciato grazie all’egemonia politica del Nord sui governi italiani (dall’Unità in poi) che ha costruito e difeso il privilegio economico settentrionale e orientato una grande scelta politica (questa invece emersa nel dibattito): fare dell’Italia, il più grande Paese mediterraneo dell’Europa, un Paese dell’Europa continentale, quasi infastidito dell’essere immerso per tre quarti nel mare antico e ansioso di essere una periferia tedesca.
Se tutto ciò è vero (sebbene detto in modo inevitabilmente sintetico e che pertanto può anche apparire superficiale) occorre avere il coraggio, proprio ora che si sta facendo l’ennesimo governo italiano, di dire che il problema dell’Italia insulare e dell’Italia meridionale è un problema di poteri e di assetto dello Stato.
I porti del Sud non sono diventati hub europei per precise scelte egemoniche del Nord (lo ha detto con dovizia di dettagli Giannola); il fisco uguale al Nord e al Sud è una scelta politica grave, ingiusta, mascherata dall’ideologia dell’unitarismo della Repubblica; il privilegio finanziario istituzionalizzato per le università del Nord è una precisa scelta politica realizzata da chi aveva il potere di assumerla; l’ossessione per le connessioni transalpine rispetto a quelle mediterranee è un’altra scelta politica frutto di una precisa egemonia; la politica estera italiana e europea tutta in salsa (e se ne è avuta un’eco anche quest’anno a Rimini) carolingia (cioè ferrosa, ferrigna e continentale) piuttosto che federiciana (cioè mediterranea) è una scelta dettata da un’egemonia politica.
La forma del potere che ha garantito l’esercizio di questa politica è quella dello Stato unitario centralista e delle leggi elettorali che hanno disciplinato il formarsi delle egemonie sullo Stato. E allora oggi, quando sembra che sia più acuta la consapevolezza che non si possa continuare a dire che la questione insulare e la questione meridionale (che sono due questioni molto diverse) sono questioni di sviluppo e non di potere, di libertà e di esercizio responsabile dell’uno e dell’altra, forse sarebbe importante, proprio ora che si va a formare un governo incredibile quanto il precedente, recuperare quel pensiero federalista che in Italia ha lunghe tradizioni e non solo alle altezze di Cattaneo, ma anche a quelle più recenti di Cacciari.
Non si può pensare di risolvere la questione fiscale, la grande e terribile uguaglianza di prelievo al Nord e al Sud, con le sole Zone economiche speciali. Non si può pensare di fingere che non vi sia una competizione tra i porti di Cagliari, Genova, Gioia Tauro, Taranto, Trieste e tra tutti questi e gli altri grandi porti del Mediterraneo. L’idea di un’univoca politica centrale delle portualità, incardinata su un ministero mostruoso come quello delle Infrastrutture della Repubblica italiana è sbagliata, perché falsamente egualitaria e sostanzialmente e praticamente egemonica. Non si può avere una politica estera esclusivamente atlantica, cioè carolingia e ferrosa, come dicevo prima, essendo l’Italia un Paese mediterraneo.
Il tema del grande scontro tra Moro e Kissinger del 1974 è ancora tutto attuale: da una parte, l’egemonia militare americana che esige (e non tratta) una collateralità dell’Europa su una sua politica mediterranea ottusa, che concede spazio a egoismi di singole aree di influenza (si pensi ai pasticci francesi in Africa, veri detonatori dell’emergenza umanitaria in corso) e che può solo generare conflitti per quanto è schematica e ingiusta; dall’altra, la visione di un sistema di relazioni prudenti e regolate fondate sul principio del diritto reciproco allo sviluppo e allo scambio.
È la struttura dello Stato italiano che va messa in discussione. I poteri centrali devono diminuire, il sistema fiscale deve cambiare radicalmente, i poteri reali rivisitati (magistratura penale, civile e amministrativa, Corte dei conti, Agenzia delle entrate, dogane, sistemi di polizia), la legge elettorale radicalmente cambiata (ed è assurdo che l’unico contenuto legittimo per fare un governo tra forze politiche così diverse come Pd e Movimento 5 Stelle, cioè una nuova legge elettorale per poi andare a elezioni, non venga posto come asse portante della trattativa in corso) in modo da garantire la governabilità, ma anche da non determinare con logiche maggioritarie anche l’articolazione dell’opposizione (in soldoni, basterebbe adottare su base nazionale la legge per le elezioni provinciali e abolire le soglie di sbarramento su base nazionale, applicandole su base regionale, per ottenere un Parlamento ordinato, ma anche rappresentativo della diversità delle proposte politiche presenti nella penisola e nelle isole); il sistema educativo reso più semplice, semplificato e non egemonizzato da due o tre atenei o da logiche aziendali sovrapposte stupidamente alle politiche educative.
In genere, questi cambiamenti profondi sono successivi a eventi traumatici della storia. L’Italia è stata fino ad oggi ostile ai mutamenti profondi. Dall’Unità in poi, tutti le trasformazioni formali (dallo Stato liberale al Fascismo, dal Fascismo alla Prima Repubblica, dalla Prima Repubblica alla Seconda) sono avvenute con una grande continuità delle strutture del potere e una certa mobilità delle classi dirigenti (i narratori siciliani, da Verga a Pirandello a Tomasi di Lampedusa, lo hanno ben raccontato) che ha prodotto solo con grande fatica qualche barlume di riformismo.
Il tema del Sud e delle Isole, dunque, si trasforma nel tema della concezione di un nuovo Stato, diverso dall’attuale, federalista e diversificato al suo interno (non è un’eresia), euromediterraneo, solidarista, semplice nell’amministrazione e nella giustizia, fondato sulla difesa della libertà e della dignità degli individui e non sulla supremazia morale degli apparati pubblici. Ma, va detto con chiarezza, su questa sfidante frontiera si è, per il momento, in pochi.