Nonostante la crisi ancora in corso abbia ridimensionato e limitato il ruolo del private equity nel tessuto economico italiano, non si può trascurare il fatto che il contesto produttivo sia caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese che necessitano di un apporto di capitali non solo nell’ottica di potersi affacciare sui mercati internazionali, quanto piuttosto al fine di conseguire progetti di crescita tesi al raggiungimento di una maggiore competitività.

A fini di chiarezza, il private equity riguarda l’acquisizione di partecipazioni azionarie in imprese non quotate, che abbiano un potenziale di sviluppo tale da consentire l’ottenimento di un plusvalore sulla successiva vendita della partecipazione, la quale viene mediamente detenuta per un periodo che va da 3 a 7 anni.

Detto strumento, caratterizzato da apporto non solo di capitale di rischio, ma anche di know-how, si è distinto nel corso degli anni per una profonda evoluzione strutturale sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

L’impatto che il private equity ha avuto sul tessuto industriale del Sud differisce fortemente rispetto ad altre aree del Paese, dimostrandosi frenato da alcuni fattori fisiologici alla realtà meridionale; urge pertanto una prima visione d’insieme sulla realtà nazionale, al fine di comprendere meglio le specificità della realtà meridionale e gli effetti, più potenziali che reali, che il private equity è in grado di produrre.

Il dato che va immediatamente colto, ad una prima analisi sulla realtà italiana, è la assoluta disomogeneità con cui si presenta l’attività di private equity, producendo in tal modo risultati diversi sui diversi sistemi imprenditoriali regionali di riferimento. Se infatti è vero che il private equity genera effetti benefici sulle imprese target, aumentandone la competitività, la crescita dimensionale e reddituale, oltre che la cd. internazionalizzazione (con una larga propensione all’export, ad esempio), va anche ravvisato che una difforme distribuzione dell’attività di investimento sul territorio italiano può – prescindendo dalle cause – creare una distorsione tra le opportunità al servizio delle imprese, e conseguentemente tra i tassi di crescita delle stesse imprese.

La considerazione di partenza della presente analisi può pertanto sintetizzarsi in un impatto certamente benefico del private equity, i cui effetti tuttavia – con leggere differenze tra buy out e venture capital – si riflettono in maniera diversificata e non sempre omogenea da regione a regione.

Circa l’operatività e la diffusione del private equity in Italia, il dato incontestabile sul quale soffermarsi è la maggiore attenzione degli operatori verso le aziende situate nel Nord del paese.

In particolare è possibile evidenziare come il focus dei fondi di private equity sia concentrato principalmente al Nord, attraverso i dati divulgati annualmente dall’Associazione Italiana di private equity e venture capital (AIFI) che hanno rivelato non solo delle differenze sostanziali circa il numero di deals conclusi in Italia a seconda delle diverse regioni, ma hanno anche sottolineato determinate differenze circa la tipologia di operazioni poste in essere.

Il dato che ne emerge, relativo al periodo 2000-2005, è schiacciante: il Nord-Italia ha attirato quasi il 90% degli investimenti in ammontare (di cui un picco del 97% nel 2003) e poco meno dell’80% in numero sul totale italiano1. Un ulteriore livello di analisi può essere rappresentato dal confronto tra le dimensioni dei mercati regionali e le caratteristiche del tessuto produttivo sottostante: in tal senso è interessante leggere i dati dell’Aifi di cui sopra in sovrapposizione a quelli di una ricerca realizzata dall’Ufficio Studi di Mediobanca e Unioncamere concernente le “medie imprese industriali italiane”.

Con specifica attenzione alle imprese di medie dimensioni, è stato calcolato il rapporto tra il numero di aziende oggetto di investimenti da parte di fondi di private equity ed il numero di realtà aziendali complessivamente presenti sul territorio di riferimento, in modo da rinvenire un quanto meno parziale indice di penetrazione del capitale di rischio nelle differenti macro-aree del territorio italiano.

 

 

Ebbene, il risultato che ne emerge presenterebbe una contraddizione almeno apparente, giacché attribuisce, con riferimento agli ultimi sei anni, il valore più elevato all’area del centro Italia (2,9%), seguita dal Sud e dalle isole (2,6%) ed in ultimo dal Nord (2,5%).

Dal dato in oggetto si evince pertanto che, almeno negli ultimi anni, i comunque scarsi investimenti verso le medie imprese del Centro e del Sud Italia sono risultati più incisivi ed efficaci rispetto a quelli effettuati nel Nord Italia, avendo questo a disposizione un bacino di utenza certamente più numeroso.

Ciò è ricondotto principalmente ad una diversa organizzazione del tessuto imprenditoriale nel Centro-Sud, molto più radicata ad una logica di gruppo (spesso facente capo ad una famiglia) piuttosto che al raggiungimento di dimensioni strutturali in capo ad un soggetto giuridico. Nella sostanza, le imprese meridionali tendono a raggiungere dimensioni medie in quanto facenti parte di un unico sistema organizzativo-imprenditoriale.

Sotto la lente dell’offerta di investimento, è rilevante distinguere due tipologie di investitore, l’investitore locale (o country fund) e l’investitore internazionale: se il primo opera l’investimento basandosi su un rapporto diretto con il territorio e le imprese che lo caratterizzano, costruendo un deal flow proprietario seguito da trattativa privata, il secondo segue invece logiche e criteri di investimento fortemente standardizzati (con il rischio di lacune in termini di know how e di networking), con una frequente partecipazione ad aste competitive per la realizzazione dell’investimento.

Naturalmente la differenza più marcata si riscontra sotto l’aspetto della raccolta: la media dei capitali in gestione dei country funds in Italia è di 110 milioni di Euro, mentre i grandi fondi internazionali raggiungono target di raccolta medi intorno agli 8 miliardi di Euro2.

Va sottolineato come la dimensione media dei fondi produca un conseguente impatto anche sui targets di investimento dei medesimi: i grandi fondi internazionali difficilmente scendono al di sotto dei 100 milioni di Euro per investimento, focalizzando pertanto su grandi imprese, spesso soggette a processi di privatizzazione o di scissione da grandi gruppi industriali.

Andando al cuore della questione, due principalmente sono i fattori che ostacolano l’attenzione dei grandi fondi verso imprese del Sud: anzitutto la distribuzione territoriale del sistema imprenditoriale, in secondo luogo la difficoltà di interazione con aziende fisicamente e culturalmente più distanti dalle grandi piazze finanziarie internazionali. In questo senso gli investitori locali hanno un vantaggio competitivo, qualora riescano ad assumere caratteristiche strutturali simili a quelle dei fondi internazionali.

Resta tuttavia la necessità di superare alcuni ostacoli connaturati nella realtà imprenditoriale meridionale, difficilmente conciliabili con una realtà sofisticata ed aperta come il private equity. Il mancato interesse dell’imprenditore del Sud verso detto strumento può essere legato a cause specifiche, tra le quali:

1) la scarsa disponibilità ad adeguarsi a criteri di trasparenza e di verifica periodica dei risultati;

2) l’indisponibilità a riorganizzare la struttura aziendale ed il sistema informativo, per ragioni di natura non solo gestionale ma anche culturale;

3) il timore dell’imprenditore verso il disinvestimento della partecipazione, grazie alla consueta way out a favore dell’operatore di private equity (ad esempio,attraverso la vendita delle azioni ad altra azienda, spesso una multinazionale) che può ledere il radicamento dell’impresa con il territorio;

4) il passaggio a forme di finanziamento alternative.

La via per la migliore applicazione di detto strumento alla realtà del Sud ed alle sue specificità, anche al fine di svilupparne le caratteristiche di una vera e propria agenzia di apporto capitali, passa attraverso tre linee d’azione: i) un’attività preparatoria, informativa e formativa, tesa alla diffusione dello strumento private equity; ii) un adeguamento degli stessi fondi di private equity, affinché possano intervenire meglio nel tessuto produttivo del Sud Italia, attraverso tagli degli investimenti più bassi, e con riferimento verso aziende target con dimensioni meno elevate rispetto alle aziende settentrionali; iii) un’attività di team work con gli operatori finanziari locali, i quali conoscono le peculiarità del territorio anche sul piano culturale.

 

 

Prima di adottare ogni soluzione, è pertanto doveroso individuare le leve più adeguate ad assolvere e soddisfare le esigenze del sistema Sud, oltre che gli operatori specializzati (prescindendo dalla nazionalità) che abbiano una vocazione di apertura al mercato ma anche delle competenze specifiche per la diversificazione di portafoglio, e che sappiano selezionare i progetti con una conoscenza accurata del territorio e delle realtà produttive esistenti.

Il processo di globalizzazione e di omogeneizzazione dei mercati favorisce sempre più una raccolta di capitali (fund raising) ed una capacità di investimento non più limitate ai confini nazionali (fortunatamente!), sul presupposto di una adeguata conoscenza delle singole realtà economiche locali. Un richiamo ad un "think globally, act locally" che, se pienamente applicato e con i giusti equilibri, può guidare un nuovo sviluppo del Sud.