Forse nessun settore come quello dei beni culturali è in Italia così complesso. Si assiste infatti ad una stratificazione di competenze e di interventi fra i vari livelli di governo. Stato, regioni, province e comuni creano un sistema di governo incredibilmente stratificato, una sorta di policentrismo assai poco collaborativo e parecchio confuso. Ai soggetti pubblici occorre inoltre aggiungere anche quelli privati. Il tutto crea un quadro disarticolato, dai forti accenti cubisti. Nonostante la somma di questi interventi, il problema che periodicamente riemerge è sempre lo stesso: la mancanza di fondi. Ma sarà vero?

Il 22° Rapporto Eurispes dedica un intero capitolo al tema. Il titolo vale più di mille spiegazioni: “Beni culturali: i soldi nel cassetto ovvero come non si spendono le risorse disponibili”. Sarà banale, ma da questa analisi emerge chiaramente un prima risposta alla nostra domanda: i soldi vengono stanziati, ma non sono spesi. Stando alla rilevazione fatta il 31 novembre 2009 dalla Tesoreria unica, la differenza fra entrate e uscite dà un attivo di 25.293.995,28 alla Soprintendenza architettonica di Pompei e di 3.622.949,99 al Polo museale napoletano. E, si badi bene, in tutti e due i casi si tratta di istituti dotati di autonomia speciale, in grado cioè di avere una maggiore elasticità e dinamicità nella spesa. I soldi dunque ci sono ma, come dice l’Eurispes, rimangono nel cassetto. Se nel 2009 lo Stato ha stanziato per la cultura lo 0,23% del Pil (di cui una parte non è stata nemmeno spesa), i comuni, le province e le regioni italiani impegnano rispettivamente il 3, il 2,10 e lo 0,6 dei propri bilanci. Insomma, i soldi pubblici arrivano, seppur tra mille rivoli.

Più che reclamare nuovi stanziamenti, si dovrebbe allora pensare a come gestire nel miglior modo possibile l’esistente. L’Italia ha un patrimonio artistico e culturale particolarmente ingente. E questo si sa. Il legislatore, poi, ha dato una accezione molto ampia di “bene culturale”. Ci ritroviamo quindi a dover tutelare una quantità incredibile di palazzi, centri storici, musei, opere d’arte, parchi archeologici, ecc. Se a questi ci aggiungiamo anche tutta la tradizione italiana legata allo spettacolo dal vivo (dall’opera lirica al teatro di prosa), non basterebbe nemmeno una pressione fiscale moltiplicata per due a conservare e a valorizzare con soldi pubblici tutto questo patrimonio. Il contributo dei privati è indispensabile, così come una maggior collaborazione tra i vari soggetti pubblici.

Soprattutto al Centro-Nord, gli attori privati sono spesso rappresentati dalle fondazioni di origine bancaria. Due di queste sono state coinvolte in una esperienza innovativa di gestione museale. Si tratta del Museo Egizio di Torino, che dal 2004 ha riunito in fondazione un gruppo di soggetti pubblici e privati a cui è stata conferita dal Ministero la gestione dell’intero museo. Esperienze come questa sono replicabili su tutto il territorio nazionale. Anche dall’interno dell’Unione europea ci arrivano importanti segnali sul processo di razionalizzazione dei costi sostenuti per promuovere l’arte e la cultura.

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Le ultime notizie ci arrivano da Berlino, dove un’unica fondazione ha visto la luce per ottimizzare e gestire le risorse umane e finanziarie di tre teatri e di altre istituzioni culturali. In un paese come il nostro dove le fondazioni lirico-sinfoniche faticano a chiudere i bilanci senza passivi, esempi virtuosi sono i benvenuti. Il Teatro San Carlo da anni è in gestione straordinaria. Dopo che nel biennio 2005-2006 i conti non quadravano, come previsto dalla legge, si è dovuti ricorrere al commissariamento.

 

 

La stessa sorte è toccata al Massimo di Palermo. In ambedue i casi si è assistito al risanamento dei conti. Questo ci dice che una gestione più oculata di tali enti può sortire gli effetti sperati. Oltre a una gestione efficiente, a fianco dell’intervento pubblico vanno poi create le condizioni affinché risorse dal settore privato possano essere sempre più ingenti. Meccanismi di matching grants si hanno quando il contributo pubblico affianca quello privato in maniera a esso equivalente. Questi strumenti sono particolarmente indicati, in quanto incentivano la ricerca di soldi dal privato e responsabilizzano gli enti, che devono essere in grado di reperire finanziamenti sul mercato tramite biglietteria e sponsor.

 

 

Sempre per ingenerare meccanismi responsabilizzanti e concorrenziali, un’idea sperimentata timidamente in alcune realtà è quella di spostare i sussidi dalla offerta alla domanda. Di norma, i contributi pubblici vengono erogati direttamente alle istituzioni culturali. Attraverso un sistema di "buoni" il sussidio passerebbe per le mani dei cittadini che, liberamente, potrebbero scegliere di spendere tale voucher dove preferiscono. Questo sistema, favorendo la libertà di scelta degli individui, creerebbe una sana concorrenza fra istituti, che sarebbero chiamati ad offrire una proposta sempre più attraente. Una volta che il cittadino ha compiuto la sua scelta, l’istituzione culturale passerebbe a incassare il "buono".

 

 

Tale schema può essere esteso a tutti i consumi culturali, ma una sua applicazione meno problematica può essere innanzitutto pensata per lo spettacolo dal vivo. A fronte di una riduzione costante del Fondo unico per lo spettacolo, offrire strumenti nuovi per rivitalizzare il settore è un compito che spetta alle regioni e alle amministrazioni locali.Se una cosa non manca al nostro paese è la presenza di un ricco patrimonio artistico e culturale. Aspetta solamente di esser fatto fruttare.