Quella dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio è una questione annosa su cui si dibatte almeno dal 1959, anno in cui Luigi Einaudi sì lanciò in una ragionata quanto appassionata “filippica”, ancora oggi lettura obbligata per quanti vogliano capire il tema. Il confronto non è mai venuto meno anche in tempi recenti ma, benché non siano pochi quanti da entrambe le parti della barricata politica si siano a parole dichiarati favorevoli all’abolire – o almeno all’affievolimento – del valore legale, nella pratica, niente di concreto è stato fatto.
Anzi, sembra già una gran concessione che non si sia mai dato alcun seguito a qualche norma che se applicata, aggancerebbe qualifiche e retribuzioni alla carriera accademica. L’editore Liberilibri di Macerata, ha voluto offrire il suo contributo alla discussione pubblicando La scuola della libertà, una raccolta di scritti di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti curata da Giancristiano Desiderio. Tutti gli scritti – che si contraddistinguono sia per intransigenza che chiarezza espositiva – hanno un sapore quanto mai attuale. E certo non è un buon segno per il sistema dell’istruzione italiano, se il lettore si accorge ben presto che gli argomenti a favore della tesi e le risposte alle obiezioni dei contrari sono perfettamente valide oggi come allora.
“Finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole, dalle elementari alle universitarie, noi non avremo mai libertà di insegnamento; avremo insegnanti occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità scientifica ed alla formazione morale dell’individuo”. Chi potrebbe mai immaginare che queste sono parole che il futuro Presidente della Repubblica scrisse nel lontano 1947?
Il valore legale del titolo di studio ha origini remote: nel 362 D.C. la costituzione Magistros studiorum di Giuliano l’apostata, nel medioevo lo Studium generale e la licentia ubique docendi che consentiva sia di insegnare in tutto il territorio dell’impero, sia di entrare nei collegi professionali. Oggi questa stessa disposizione è incarnata dalla direttiva europea 2005/36, la quale pone una serie di problematiche che rendono difficile se non impossibile, come nel caso delle professioni mediche, l’abolizione del valore legale. Il problema principale risiede nel fatto che solo chi consegue un titolo di studio certificato dal Ministero può avere accesso ai concorsi pubblici e soprattutto – perché qui il danno economico è più esteso e tangibile, sia in termini di disoccupazione che di artificioso aumento degli stipendi – agli esami abilitativi per l’accesso alle professioni private.
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Il nostro dettato costituzionale, al penultimo coma del discusso l’articolo 33 è perentorio: "prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale", così rimandando alla legislazione generale in materia. Dunque, lo si consideri un valore legale generale o semplicemente accademico, il sigillo statale è tappa obbligata per l’accesso alle professioni. La prima delle norme che compongono tale scenario è contenuta del r.d. 30 settembre 1923, n. 2102, poi raccolta nel r.d. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 172, per cui "i titoli di studio rilasciati dalle università hanno esclusivamente valore di qualifiche accademiche. L’abilitazione all’esercizio professionale è conferita a seguito di esami di Stato, cui sono ammessi soltanto coloro che abbiano conseguito presso università i titoli accademici".
Ma per quanto grandi possano apparire le difficoltà, quella dell’abrogazione del valore legale è una riforma sempre più importante. La riprova la sia ha guardando a quanto accade sul mercato del lavoro, in cui gli imprenditori – uomini attivi e concreti – toccano con mano quotidianamente i guasti prodotti da una preparazione non impartita dallo Stato ma frutto del giudizio che ne danno sul mercato datori di lavoro, consumatori e clienti. Come sanno bene tutti coloro che hanno frequentato o ancora frequentano l’università, è comune dover dedicare tempo ed energie allo studio di argomenti che non torneranno mai utili nel corso di tutta la vita lavorativa.
Nulla di strano considerando che l’offerta formativa degli atenei – ormai veramente sempre più solo svilenti "esamifici" – è basata su aspetti quantitativi anziché qualitativi, la stessa cosa vale per i finanziamenti, direttamente proporzionali al numero di laureati. Dal valore legale non scaturiscono solamente la massificazione e la proliferazione degli atenei, l’uniformità degli ordinamenti, e il controllo pubblico (anche di quelli "privati"). Il danno, le cui evidenti ripercussioni sociali sono facilmente conoscibili, esiste e non va sottovalutato se è vero che uno dei "più ovvi" effetti del titolo legale "è quello di trarre in inganno i diplomati medesimi; inducendoli a credere che, grazie a quel pezzo di carta, essi hanno acquistato il diritto od una ragionevole aspettativa ad ottenere un posta che li elevi al disopra degli addetti alle fatiche manuali dei campi o delle officine".
Una riforma che consenta l’accesso alle professioni non sulla base del pezzo di carta che si stringe in mano, ma sulla base delle reali competenze individuali (per intendersi, sulle orme di quell’originario modello anglosassone – la cui integrità è oggi, a dire il vero, sempre più minacciata dall’intervento statale) porrebbe la parola fine a tutto questo e il sistema universitario ne trarrebbe grande giovamento, trovandosi gli atenei costretti a competere realmente fra di loro sia per capire quali siano esattamente le conoscenze e gli insegnamenti richiesti dal mercato sia, di conseguenza, per garantirsi i servizi dei professori che più siano competenti nell’impartirle. Abbandonando un mondo basato sulla classificazione castale "propria di società decadenti ed estranea alla verità ed alla realtà" per quello in cui il datore di lavoro sia finalmente libero "di preferire l’uomo vergine di bolli".