L’Unità d’Italia, pur prossima a festeggiare i 150 anni di vita, è ancora oggetto di molte discussione. Anche Celestino Ferraro non risparmia critiche al modo in cui il nostro Paese è stato unificato, ma sembra dire: ormai l’Italia c’è, tutto sommato anche gli italiani, e allora pensiamo noi, oggi, a tenerla unita, in modo serio.

Come tutto ciò che finisce in politica, anche il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, finisce in caciara. Dovremmo essere più accorti e non cadere nel déjà vu che ci fa tutti “purtualle” (come si dice a Napoli quando intendiamo livellarci ai meriti altrui), e maltrattiamo gli avvenimenti storici come se fossero passioni ancora ribollenti.

Dovremmo trattare il grande evento storico della nostra unità alla luce di quella cultura che ci ha edotti dei fatti d’epoca all’ombra della ghigliottina: ghigliottina che eguagliò le teste dopo che la cesta le aveva raccolte decapitate in Liberté. I monarchi d’epoca procedevano assolutisticamente e i possedimenti si arricchivano o si perdevano con la forza delle armi. La Savoia e Nizza furono il prezzo che Vittorio Emanuele II pagò a Napoleone III per compensarlo dell’aiuto determinante prestato a Cavour (il Tessitore) nell’impresa di annettersi la Penisola.

Scambio realistico e conveniente per formare finalmente una Nazione Italiana. Vittorio Emanuele II diviene re d’Italia essendo, originariamente, monarca di un piccolo stato. Se il Borbone fosse stato più solerte e lungimirante, avrebbe potuto lui annettersi l’Italia intera, Piemonte compreso, e non finire a Gaeta asserragliato senza speranze.

Vorrei dire che le annessioni o le cessioni di territori, procedevano indipendentemente dalla volontà delle popolazioni le quali, a sera andavano a dormire austriache e, il mattino, si svegliavano francesizzate. Napoleone I, figlio della Rivoluzione che aveva decapitato Luigi Capeto in un eccesso d’Égalité, dopo la spallata inferta alla monarchia borbonica, pensò bene di sostituirla e s’incoronò imperatore nella Basilica di Notre-Dame, benedetto dal Papa Pio VII (2 dicembre 1804 – “a Deo rex, a rege lex). Tutta la storia europea subisce la bufera napoleonica e tutte le monarchie d’Europa furono sconvolte dall’uragano che imperversò sulle teste coronate fino al Congresso di Vienna. Congresso che osò ignorare un ventennio di lacrime e sangue versato dai popoli desiderosi di libertà e stabilì il principio del legittimismo per autorizzare i vecchi monarchi a impadronirsi ancora degli stati che la Rivoluzione aveva loro sottratto in nome della liberté, égalité, fraternité.

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Il Savoia si annette l’Italia protetto dalle armi francesi (gli Chassepot, fucili a retrocarica, avevano rivoluzionato le fanterie e a Mentana avevano sbaragliato i garibaldini). Le popolazioni italiane subiscono la forza dei piemontesi mentre solo una cultura d’élite condivide l’ideale della Patria Italiana. Sarebbero dovute essere le nuove generazioni quelle cui competeva formare una coscienza nazionale, ma i gattopardi di ogni regione italica nulla fecero perché questo sentimento unitario fiorisse rigoglioso fra le genti che, in verità, non parlavano nemmeno la stessa lingua.

 

Mentre il dialetto toscano assurgeva ai fasti di lingua italiana, la cultura conosceva la lingua dei dotti, Lo cunto de li cunti, di Giovan Battista Basile, tentò di unificare la lingua in uno sforzo semantico che faceva il napoletano base comune ai popoli della Penisola.

 

Nemmeno sotto questo punto di vista l’operazione unificatrice diede i suoi frutti, la Grande Guerra, quella del 15-18, portò a morire sulle doline del Carso il fiore della gioventù meridionale, ma la lingua restava appannaggio della solita cultura elitaria. Nelle case patrizie, dei nobili, dei grandi borghesi nati dalla Rivoluzione, era chic ostentare confidenzialmente il francese come lingua di casta.

 

Solo la Tv, con Mike Bongiorno, s’introdusse nelle case d’Italia, dal Nord “polentone” al Sud “terrone”, e unificò il linguaggio, necessario per capirsi e godere dello spettacolo. Diciamo un interesse immediato che agì indipendentemente dalla volontà dei singoli unificando la Penisola sotto un unico e vero linguaggio italiano.

 

Dovemmo godere di un intervento straordinario, come quello della televisione, per cominciare ad apprezzare i sentimenti che la prepotenza di un monarca operò sull’Italia formattandola in un unico Stato. Sarebbe deleterio che la smania di riforme (federalismo leghista), arrecasse danni incalcolabili a questa unità d’Italia che, già così com’è, soffre di patologie centrifughe.

 

Celestino Ferraro, farmacista