La nuvola che dalla lontana Islanda ha bloccato i voli nell’intera Europa ha suscitato molti disagi, ma anche molta sorpresa, perché ci ha fatto trovare improvvisamente molto più vulnerabili di quanto pensavamo. E, scrive Paolo Ramaioli, ci ha ricordato che dipendiamo, comunque. Perfino da un vulcano.
Con tutto il rispetto dovuto a chi ha subito disagi e danno economico (pare sia stata una ecatombe di mozzarelle e sushi…), c’è un che di ironico nell’evento della nuvola impertinente che ha sorvolato senza autorizzazione gli spazi aerei nazionali, lasciando a terra l’Europa, gli aerei e il morale dei viaggiatori. Vi sarà capitato, innaffiando il giardino, di inondare inavvertitamente un formicaio: la proverbiale organizzazione dei laboriosi insetti va in tilt, saltano tutti gli schemi e le formiche vagano come impazzite, disordinatamente e in ogni direzione, senza meta apparente, in cerca di una soluzione improbabile. Fino a risolversi all’unica possibile, la più banale: attendere che l’acqua defluisca, per poi contare i danni e ricominciare la solita routine. In Europa non è successo qualcosa di troppo diverso.
Qualcuno poi non sa capacitarsi che, accidenti, non sia colpa di nessuno: senza un colpevole siamo tutti meno tranquilli e sicuri. A complicare le cose c’è il fatto che è tutta roba naturale quella polvere maliziosa che, con le sue particelle abrasive, consuma le lame dei compressori, ostruisce i filtri dell’aria e gli alimentatori, fonde nelle camere di combustione e, solidificandosi nelle turbine, le intasa costringendo il personale di terra degli aeroporti ad imballare quei gioielli tecnologici che sono i motori degli aerei, avvolgendoli completamente con pellicole trasparenti. Fino a farli sembrare enormi brioches da asporto.
E poi la nuvola non proviene da qualche pozzo petrolifero iracheno in fiamme, ma dalla iperlaica ed ecologica Islanda, avamposto nella lotta al riscaldamento globale, terra del ghiaccio che, si sa, è altissimo, purissimo, levissimo. Una brutta storia. Ma tant’è: un vulcano, magari un pò eccentrico (d’altra parte si chiama Eyjafjallajokull, nome che nessun cronista ha osato pronunciare, per non rischiare di finire su “Striscia”) ha semplicemente fatto il suo mestiere. E ci ha lasciato a piedi.
Ne traggo un suggerimento: la realtà, che è testarda, ci ha un pò bruscamente ricordato che noi, così autosufficienti ed operativi, dipendiamo. Perfino da un vulcano. Non è difficile da capire, il difficile è ricordarsene: forse la nube più pericolosa e abrasiva non è sopra, ma dentro di noi. Via, domani si vola …
Paolo Ramaioli, Biella