Roberto Alabiso ritorna a parlarci delle difficoltà degli artigiani, ai quali il nostro Paese deve tanto per il loro apporto all’economia, al lavoro e alla nostra immagine nazionale grazie al loro gusto e alla loro creatività. Tuttavia, dice Roberto, sembra ormai che il vivere alla grande non voglia più dire vivere la propria vita con un significato, ma tentare la fortuna con un gratta e vinci.
E’ passato quasi un anno e mezzo da una delle prime riflessioni sul mio lavoro Essere artigiani oggi, la passione per la bellezza , che aveva sostanzialmente lo scopo di richiamare l’attenzione su quei mestieri che da sempre nel nostro paese, hanno dato occupazione, creato ricchezza e ci hanno distinto nel mondo per le nostre capacità creative legate a grandi tradizioni come la ceramica, l’ebanisteria, il ferro battuto, l’argenteria, l’oreficeria, la lavorazione artistica del marmo, del vetro, le fonderie ecc. Il nostro è sempre stato un paese d’imprenditori, che specialmente nel dopoguerra hanno avviato e sostenuto la ripresa, non soltanto costruendo strade ponti e ferrovie, ma facendo riemergere e dando speranza, dopo la tragedia bellica, al desiderio di ognuno di mettere su famiglia, di giocarsi con la vita e cercarne il senso più vero, di restituire alle città quella bellezza violentemente sottratta a case chiese strade e piazze ricche di storia.
Oggi questa crisi economica mondiale che tutti giudichiamo la più grave dopo quella del 1929, con una violenza ovviamente diversa, sta causando danni per certi versi paragonabili a quelli di una guerra, la distruzione della speranza e della dignità di chi non trova lavoro o lo perde, di chi chiude l’impresa dopo anni di sacrifici, dei giovani che non trovano lavoro e non mettono su famiglia, ai pastori ormai stremati in Sardegna, ai ricercatori e insegnanti senza contratto ecc. a cui buona parte della popolazione e della politica assiste inerme e anche indifferente, più o meno come pochi mesi fa nella metropolitana di Roma, dove solo dopo lunghissimi minuti qualcuno si è fermato a chiamare soccorso per una giovane madre stesa a terra da un pugno che l’ha uccisa.
C’è da ricordare che la seconda guerra mondiale ha avuto origine dalla crisi economica della Germania, che poi nell’indifferenza del mondo ha sterminato, per sottrarne le ricchezze, sei milioni di ebrei e non solo. E’ l’economia a sostenere qualsiasi forma di organizzazione sociale e di potere evoluto, anche fosse la Democrazia più perfetta. Oggi tutto si muove infatti in funzione di finanza e mercati, ma i capitali anonimi, che Benedetto XVI ha indicato come uno dei mali del nostro tempo, stanno mettendo l’economia reale in ginocchio, anzi alcuni settori produttivi, sono già stati schiacciati senza suscitare reazioni né di classe politica né tanto meno dell’opinione pubblica.
Molti economisti che scrivono nei giornali più blasonati e che vediamo sempre più frequentemente negli schermi piatti al plasma o in internet, si ostinano ancora a giudicare come processo naturale nonché opportuno, la selezione darwiniana delle PMI e di tanti antichi mestieri non comprendendo o evitando di farlo, quali sono di le ripercussioni sociali ed umane ed economiche di una così rapida “deforestazione” del territorio.
Le nostre industrie manifatturiere di un tempo, abbigliamento, calzaturiero, elettrodomestici ecc. ma anche alimentare, hanno lasciato vuoti i capannoni, che nelle regioni più vocate alla produzione industriale si vedono abbandonati come monito silenzioso agli errori di tutti i governi sia di destra che di sinistra. Chi ha potuto si è trasferito insieme ai macchinari in Asia oppure nei paesi dell’Est, dove mano d’opera e tassazione sono un quarto rispetto all’Italia, ma nessuna istituzione si è mossa per invogliarle a restare. C’è la globalizzazione, non ci sono soldi come dice ad ogni occasione il ministro Tremonti, così dobbiamo adeguarci o soccombere. Io non credo riusciremo ad allinearci agli standard di lavoro degli operai cinesi o della Romania, sarebbe logico fossero loro ad adeguarsi ai nostri, ma siamo ormai inermi di fronte ad un meccanismo globale ormai in corsa che nessuno può né sa fermare senza rischiare la catastrofe definitiva immediata.
Così assistiamo passivamente nei paesi occidentali alla distruzione della classe media legata alla produzione e di quelle eccellenze produttive che citavo sopra, anche perché culturalmente non hanno alcun sostegno da istituzioni e nemmeno nei grandi canali dell’in-formazione. Avete mai visto la pubblicità di una ceramica di Caltagirone come invece accade per un cellulare di ultima generazione, di una nuova tariffa telefonica o dell’ultimo modello d’auto a sei cilindri turbo decappottabile?
E’ ovvio che no, il meccanismo economico del massimo profitto non lo potrà mai permettere e così il danno all’economia di piccole aziende artigianali sarà irreversibile, nessun giovane oggi aspira a essere un bravo ceramista o un fabbro del ferro battuto, l’ideale è fare carriera in televisione o nella moda, nel migliore dei casi cercare un lavoro all’estero oppure laurearsi e tentare di svolgere professioni più socialmente ed economicamente riconosciute; sinceramente non so dar loro torto.
Fino a pochi decenni fa la bottega di un sarto o di un falegname era anche il luogo dove i ragazzi che decidevano di non studiare erano educati alla vita e a rapportarsi con il mondo fuori dalla famiglia, era anche una maniera per tenerli lontani, specialmente al Sud, dalla manovalanza che mafia e camorra vanno sempre cercando. Trasformare la materia e vederne nascere un oggetto era un avvenimento, aveva un valore riconosciuto, c’era piena soddisfazione dopo la fatica compiuta a completare un mobile, una vetrata o una giacca, dove era rintracciabile la mano di chi ci aveva lavorato, a essere ricompensati anche dalla gratitudine visibile sul volto del committente cui non avevi tradito la fiducia.
Si comprendeva immediatamente e più a fondo il senso vero della fatica e del lavoro, che è per l’uomo e non viceversa. E’ proprio questo che dà tanto fastidio al capitalismo di oggi, perché in un sistema così congegnato l’uomo è a servizio del lavoro, e non il contrario com’è giusto che sia. Nella ricerca del profitto smodato si cela e si manifesta la sopraffazione sui più deboli, che contribuisce al deterioramento dei rapporti sociali e umani con la perdita del vero significato che li alimenta. Prevale il do ut des, anzi meno ti posso dare e più pretendo che tu renda.
Che un dirigente guadagni quattrocento e più volte lo stipendio di un lavoratore, deve farci riflettere, così come il calciatore che in un mese guadagna quanto un insegnante in dieci anni, e non è possibile ancora sentirci dire che un giocatore muove quarantamila tifosi che pagando il biglietto o abbonandosi ai servizi televisivi satellitari genera ricchezza, perché quei costi in più sulle scatole di pomodori o sulla telefonata li paghiamo noi, insegnanti o artigiani e lavoratori in genere che siamo. Una società dove questo accade ed è possibile, è sostanzialmente scompensata e ingiusta, tant’è che per far provare a tutti la possibilità di una ricchezza esagerata si moltiplicano lotterie e gratta e vinci che servono soprattutto a sostenere le ormai super- indebitate casse statali.
Per manager di grandi aziende e multinazionali che sempre meno in questa crisi riescono ad ottenere aiuti di Stato, anche se non ne sarei tanto sicuro, ma sicuramente non sono abbandonati dalle banche come invece accade ai piccoli, lo scopo dell’agire quotidiano è vincolato all’ottenimento del massimo profitto con il minor impiego e costo del personale, e con operazioni di borsa, così che si sente sempre più spesso dire che c’è la ripresa, anche se debole, ma senza occupazione, e non si dice che i posti di lavoro persi non saranno più recuperati.
Si cercano come mai prima d’ora, mercati nei paesi in via di sviluppo, Brasile, Cina e Russia come fossero l’ultima spiaggia dove vendere prodotti che i nostri mercati non sono più in grado di assorbire, fabbricati sempre più massicciamente fuori dall’Italia. Non ho nessuna “invidia” di dirigenti di grandi industrie o di politici costretti a viaggiare sotto scorta, con enorme dispendio di mezzi e senza la libertà di un caffè in compagnia al bar, non credo sia questo il cosiddetto massimo della vita, ma occorre tutelare gli artigiani, le imprese piccole e medie e quelle a conduzione familiare, con agevolazioni e riduzione di tasse e burocrazia subito, ma soprattutto con il sostegno culturale che manca totalmente in una società spinta costantemente al consumo di beni superflui e all’indebitamento.
Se non si cambia direzione, l’unica via d’uscita sarà anche per le Pmi o la resa o la delocalizzazione, con la conseguente perdita di quei settori in cui ci siamo contraddistinti, la mano d’opera non sarà più la nostra e della creatività italiana rimarrà solo un bel ricordo. Non ditemi che è il percorso obbligato della storia, perché così si distruggerà definitivamente quanto di buono con sacrifici e dedizione i nostri padri ci hanno lasciato in eredità, e non è detto che la catastrofe di cui sopra non sarà soltanto rimandata.
Questa storia va cambiata e dobbiamo essere noi a farlo, noi che abbiamo creduto in un paese amico, che aveva a cuore le sue imprese e i suoi artigiani, che credeva nei suoi insegnanti e operai, nei suoi giovani e soprattutto negli uomini e nelle donne di buona volontà. Questo dovrebbe significare “Vivere alla grande”, non tentare di cambiare la propria condizione di vita con un gratta e vinci, cercando di adeguarla a quella di grandi star, finanzieri, potenti uomini politici, e non, di questo mondo.
Roberto Alabiso, artigiano del vetro artistico