Da oggi parte una mini-ricognizione sul cinema italiano con ambizioni da esportazione, diffuso sulle piattaforme streaming.
Da 20 anni almeno si vocifera del bisogno che ha l’industria italiana del ritorno al genere, al giallo, al thriller, al poliziesco d’azione e all’horror per ravvivare la sua produzione e soprattutto la sua vendita all’estero. In questi 20 anni, però, film del genere sono stati prodotti, con un incremento duraturo, il problema è la qualità di questi film e la ricettività dei mercati stranieri. La dimostrazione sta tutta in un film come Il talento del calabrone, previsto per l’uscita a marzo e poi dirottato su Prime Video.
Diretto da Giacomo Cimini, il film racconta di una trasmissione radiofonica tenuta in scacco da un pazzo (Sergio Castellitto) che minaccia di far esplodere un ordigno potentissimo se non si seguiranno le sue regole: a rapportarsi con lui sono il dj della trasmissione (Lorenzo Richelmy) e un tenente della polizia (Anna Foglietta) che cerca di stanare l’uomo.
Cimini con Lorenzo Collalti scrive un thriller che produttivamente è un’operazione piuttosto interessante per realizzare un prodotto efficace con poco budget: pochi attori, una o due location, tutta la tensione giocata sui dialoghi. Un meccanismo collaudato che però fallisce perché quasi niente di ciò che vediamo risulta credibile.
Sorvolando sulla sceneggiatura piena di incongruenze ed errori, ma che dovremo svelare fino in fondo per darne conto, Il talento del calabrone ha proprio un problema di partenza nella costruzione dell’atmosfera, odorando di fasullo fin dalla prima sequenza, dalla messinscena dalla radio, dalla definizione di un immaginario tutto neon e luci notturne che sconta il fatto di essere tutto ricostruito e riprodotto in interni, per arrivare ai personaggi che agiscono senza un minimo di logica (su tutti la poliziotta mediatrice che però strilla e brandisce armi come se fosse una terrorista) fino a giungere a un intreccio pensato solo per il colpo di scena che a furia di accumulare presunte sorprese finisce per essere prevedibile.
A non riuscire a tenere tutto insieme è purtroppo la regia di Cimini che anziché controllare e gestire la tensione attraverso i rapporti tra i personaggi cerca la strada facile del parossismo, alzando i toni (e le ambizioni), fingendo una frenesia che né le immagini, né il montaggio sanno restituire. Ecco, fingendo è un po’ la parola chiave per un film in cui gli attori – tranne Castellitto quando è tenuto a freno – fingono non recitano, si sforzano di sembrare senza interpretare.
Il talento del calabrone vuole a tutti i costi sembrare un film americano, come da sempre speranza del regista, nei modi, nei toni visivi, nell’idea cosiddetta high concept che può facilmente essere venduta per i remake, e probabilmente la diffusione sulla piattaforma Amazon aiuterà in questo senso, ma è un gioco condotto malamente più che scoperto, uno scimmiottamento più che un calco, che cerca costantemente di darsi uno spessore che anche al suo grado zero non riesce ad avere.