Padre Mauro-Giuseppe Lepori, Abate generale dell’Ordine Cistercense, ha scritto una sentita e profonda lettera agli appartenenti al suo ordine, “Fermatevi e sappiate che io sono Dio. Lettera per il tempo dell’epidemia” in cui affronta il dramma di questi giorni, il coronavirus, che miete centinaia di vite al giorno. Ne abbiamo parlato con lui per approfondire le sue parole.
Nella sua “Lettera per il tempo dell’epidemia”, lei ha usato l’espressione “Una quaresima universale”. Le chiese rimangono chiuse e non è possibile per i fedeli andare a Messa. Lei dice anche che questo è “un grande digiuno, una grande astinenza universale”. Non tutti i cristiani capiscono questo obbligo di non partecipare alla liturgia, lo sentono come un’imposizione che li priva della loro libertà di fede. Perché, secondo lei, questa fatica?
È difficile per tutti capire fino a che punto ci siano o no delle alternative a certe decisioni delle autorità civili e ecclesiastiche riguardo a quello che per noi è essenziale, come il sacramento dell’Eucaristia. È sicuramente difficile capirlo anche per le autorità stesse. È meglio accusare il colpo della realtà così come si presenta e ci è chiesto di viverla, lasciandoci però ferire da questa mancanza essenziale. Oggi questa fede non è più così viva nel popolo, e in noi stessi, e forse la situazione attuale viene come a rivelarci la nudità della nostra fede, la superficialità della nostra pratica religiosa. Insomma, se spesso l’Eucaristia domenicale non era già più importante che lo sport, i viaggi, gli spettacoli eccetera, come pretendiamo che ne affermiamo l’importanza quando si rischia veramente la vita? Per questo, anche se come prete e monaco posso continuare a celebrare ogni giorno, lo vivo anch’io con un senso quaresimale di contrizione per come ho spesso sprecato i tesori che sono posti nelle nostre mani.
I cristiani perseguitati, o in situazioni di guerra, vivono questa condizione senza perdere la fede. È un problema di noi cristiani occidentali, che spesso riduciamo la fede a un fatto esteriore?
Ora siamo in questa situazione, in questo digiuno, in questa mancanza reale. Lasciamocene ferire, anche con gratitudine per il fatto che vediamo in noi e in tutti un recupero di ciò che nella vita è veramente importante. Per esempio: i contatti familiari, lo stare insieme, il preoccuparsi della salute gli uni degli altri, la stima per chi ci serve nascostamente negli ospedali e in tutti i servizi pubblici, il valore della vocazione di chi ci trasmette ogni giorno il Corpo di Cristo, normalmente in presenza di poche vecchiette, la Sua parola di vita che magari ora scopriamo finalmente come ciò che dà senso e luce alla nostra esistenza, che dilata il respiro del nostro cuore altrimenti affannato dalla paura e dalla solitudine.
Dobbiamo riscoprire un approccio diverso alla fede?
Se riscopriamo l’umano che è in noi, negli altri, e direi soprattutto fra noi e gli altri (tutti gli altri!), allora capiamo che in un certo senso ci è dato di toccare il Corpo, il Sangue e l’Anima di Cristo come se facessimo la Comunione tutti i giorni, anzi in ogni istante.
Lei ha scritto: “Dio ci chiede di fermarci; non ce lo impone. Vuole che di fronte a Lui ci fermiamo e rimaniamo liberamente, per scelta, cioè con amore. Non ci ferma come la polizia che arresta un delinquente in fuga”. Questo come ha a che fare con il libero arbitrio? Le circostanze possono impedirlo?
La libertà non si gioca mai veramente nel potere che abbiamo, o nel cambiare le circostanze, ma nel modo con cui ci poniamo di fronte ad esse. Solo un rapporto con l’Infinito che il mio cuore possa sempre scegliere nel presente è libertà in atto. Mi colpisce sempre il fatto che tante sette religiose promettono un potere magico sulle circostanze, come se la libertà fosse un potere che hai tu e non gli altri, che puoi avere tu in concorrenza con gli altri. Spesso anche noi siamo tentati di vivere la fede così. Invece la libertà che ci dona la fede in Cristo non è tanto un potere sulle circostanze, ma la grazia di poter vivere in esse il rapporto con Dio. Non sono tanto le circostanze che devono cambiare perché io sia felice, ma il mio cuore. E il cuore cambia se ama qualcuno, se non è solo con se stesso, cioè ripiegato su di sé, ma aperto a un dono infinito. Per questo le circostanze che ci “prendono”, come quella attuale, se le viviamo almeno con il desiderio di amare un Altro, e gli altri in Lui, anche se ci legano e incatenano, diventano cammino di libertà, di una libertà infinita, perché nulla sconfigge la finitezza più che il viverla ora tesi all’infinito. La fede in fondo ci permette di “ingannare” tutto ciò che ci lega e ci requisisce riconoscendo con amore che in tutto possiamo legarci e lasciarci guidare dal Signore. È un po’ come sulla Croce: il demonio trionfava per aver “costretto” all’impotenza totale il Figlio di Dio, ma non si è accorto che in quel Corpo inchiodato, anche oltre la morte, batteva un Cuore che amava il Padre e tutti i peccatori. La nostra libertà è totalmente libera quando ama. Solo l’amore salva la libertà, persino nella e dalla morte.
In questo periodo stiamo assistendo a dimostrazioni eroiche di impegno, soprattutto del personale medico, per salvare la vita di chi è malato. Fino a ieri ci lamentavamo di tutto, anche della sanità. Oggi assistiamo a qualcosa di inaspettato. Questo ci dimostra che nell’uomo, anche in chi non crede, c’è sempre un impeto di bontà?
Il contrario del lamento è la gratitudine, e la gratitudine nasce di fronte allo spettacolo della gratuità. Ogni cuore umano, indipendentemente dalla sua fede o non fede, è sensibile a questo spettacolo. In questa circostanza drammatica ci accorgiamo tutti che siamo normalmente troppo distratti e non vediamo le mille scintille di gratuità che ogni giorno ci permettono di vivere, mangiare, lavorare, andare a scuola, viaggiare, tutto; anche perché la patina commerciale della società e della cultura in cui viviamo ci impedisce di scorgere queste scintille, o ne stravolge la natura. Ma anche questo è frutto di una conversione del cuore, che ritorni a vedere la realtà per quello che è: che è fatta e donata gratuitamente da un Altro. A cominciare da se stessi.
Eppure, l’egoismo, l’individualismo dominano i nostri cuori più della gratuità.
Spesso non ci doniamo perché non ci riconosciamo donati, creati, voluti e amati da un Altro. Lo spettacolo di persone che sacrificano la loro vita e il loro tempo, e magari anche la loro salute, non solo per dovere, ma per una gratuità, di cui magari non sono neppure coscienti, è una scossa alla coscienza di noi stessi. È impressionante percepire in questi giorni come la gente accetta il sacrificio di tantissime cose che davamo per scontate, che consumavamo senza gratitudine, anzi, appunto, lamentandoci. Tutti questi testimoni del gratuito ci aiutano in questo, hanno un’autorevolezza che zittisce il lamento. Non dovremo dimenticarlo quando torneremo alla vita “normale”. Speriamo di non tornare alla normalità tornando al lamento…
La società in Occidente si distingue da tempo per aver dimenticato l’essenziale, viviamo nella distrazione più assoluta. Pensavamo di essere imbattibili da soli. Come possiamo noi cristiani oggi, in questo momento di grande sgomento e paura, testimoniare questo agli uomini?
Penso che noi cristiani siamo chiamati ad accogliere come tesoro questa povertà, per scoprire che in essa, come a Betlemme, come a Nazareth, come sul Calvario, Cristo vive, è con noi, e vuole essere il vero tesoro di noi e di tutti, un possesso che ci libera da quello che non dura, da tutto quello che basta un invisibile virus per fermarlo su scala mondiale. È un momento in cui dobbiamo guardare la vita dei santi e imparare da loro ad essere vuoti di noi stessi e pieni di Cristo.
Un altro aspetto del mondo in cui viviamo è la grande solitudine di tante persone. In questi giorni tanti muoiono da soli senza neanche poter vedere i loro cari per evitar loro il contagio. Che significato ha questo morire in totale solitudine?
È la morte di Gesù, presso la quale anche Maria è potuta stare solo in silenzio, impotente, eppure trasmettendo una vicinanza che solo il cuore può percepire. Maria ci insegna che la preghiera ci lega più di ogni contatto umano. Ma è innegabile che questo è un dolore, anche per lei. Chissà che desiderio aveva di poter avvicinarsi al Figlio ancora di più, di potergli stringere il capo, di baciarlo, di pulirgli il viso con le sue lacrime… No, ha dovuto stare a distanza. Solo il cuore e il dolore erano stretti a Lui. Dobbiamo pensarci in questi giorni, stare tutti più vicini a queste persone che muoiono sole e ai loro cari, che pure sono soli nello stare lontano da loro nel tempo ultimo. Mi ha colpito il volto del Papa che camminava solo e in silenzio per le strade di Roma, pregando, compatendo. Ci ha mostrato che non siamo soli e nessuno è solo, ma dobbiamo mostrarlo anche noi, fra di noi, nello sguardo che portiamo su ogni persona che incontriamo. È incredibile come in questi giorni ci si senta famigliari di tutti, perché viviamo tutti la stessa prova, lo stesso lutto, la stessa speranza.
Abbiamo letto alcune dichiarazioni anche di capi di Stato di grandi paesi che lasciano interdetti, come se il problema maggiore siano i danni economici piuttosto che la perdita di vite umane. Che ne pensa?
San Paolo direbbe: “se non ho la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (cfr. 1 Cor 13,1). Questa epidemia rivela la consistenza o inconsistenza di tante parole, di tante polemiche, di tante idee o ideologie. Per questo, in questi giorni, è come se la politica tacesse, anche perché nessuno ha più voglia di ascoltare il risuonar dei bronzi e il tintinnare dei cembali. Ora è la realtà che si prende il diritto di emergere, e ci accorgiamo che la realtà ha un livello di consistenza e di coscienza che si chiama “uomo”, “umanità”. Tutto quello che non sta di fronte a questa realtà è inconsistente, è disumano, a volte anche criminale. La realtà è come quel bambino che si è messo a gridare di fronte al monarca: “Il re è nudo”. Quanta politica si rivela nuda in questi giorni!
Ritiene che cambieremo dopo questa emergenza o tutto tornerà come prima?
Non lo so. L’umanità va avanti da millenni a dimenticarsi delle sue tragedie e del loro significato. Ma c’è sempre almeno un piccolo resto, fra noi e in ognuno di noi, che rimane ferito da una coscienza nuova, e questo mantiene nella società come un segno profetico di come possiamo vivere con più verità e bellezza; e anche chi ritorna a vivere come prima è contento di avere questa “spina nella carne” a ricordargli il senso della vita. Comunque, so che è anzitutto a me stesso che devo dire e dovrò ripetere: non dimenticare!
Che cosa rappresenta oggi, nel terzo millennio, una comunità di monaci?
La mia preghiera, e il mio desiderio di conversione, è che ogni comunità di monaci e monache, come ogni comunità cristiana, sia questo segno profetico, umile e povero, di una vita più umana per tutti. E un luogo di vera compassione, quella di Cristo per il mondo.
(Paolo Vites)