Bergamo, insieme a Brescia, è la città martire di questa epidemia di coronavirus. I decessi sono al momento oltre 600 in soli venti giorni, i contagiati dichiarati 8.349. Tre i medici morti in città e provincia, ben 23 sacerdoti deceduti. Una strage. Le immagini delle bare caricate di notte su una lunga fila di camion dell’esercito hanno fatto il giro del mondo. Al cimitero cittadino non c’è più posto, le salme vengono inviate nei forni crematori di altre città. Sembra un lungo, interminabile film horror. Abbiamo chiesto al vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, che vive in prima fila questo dramma, cosa significa affrontare la prova terribile a cui è sottoposta la sua gente: “Non siamo separati dalla nostra comunità nemmeno nel passaggio della morte. C’è una forza interiore più vasta e più profonda anche del male: questa è la fede, che è la linfa nelle radici del popolo bergamasco”. Nonostante tutto, c’è la speranza, che non decade mai: “Questi giorni allungano ombre di morte sulla nostra vita comune e sulle nostre famiglie, ma nello stesso tempo non possiamo fare a meno di riconoscere i segni della primavera. La resurrezione è il fiore che sboccia e che anticipa la gioia di poterne gustare un giorno il frutto”.



Questo virus non risparmia nessuno. Molti sono i sacerdoti deceduti nella Sua diocesi, ma non solo. Immaginiamo il Suo dolore come padre della Chiesa bergamasca. I sacerdoti hanno fatto dello stare in mezzo alla gente la loro missione. Ritiene che il popolo dei fedeli in questo momento si senta abbandonato? Che cosa dire loro in questo frangente?



In questo momento, nell’abisso del dolore, c’è bisogno di vicinanza. Ma non basta. L’urgenza ha fatto scattare una solidarietà generosamente impressionante. La solidarietà ha poi fatto nascere il senso di prossimità. Che dal 6 marzo ad oggi (29 marzo, ndr) 23 preti siano morti, è un triste dato che però dice pure grande prossimità alla gente. E ce ne sono una ventina ricoverati, alcuni gravi. Ringraziamo anche il Signore per qualcuno che è stato dimesso e sta meglio. Stiamo vivendo questa pena condividendola con quella delle nostre comunità insieme al numero dei contagiati, dei malati e un elevato numero di morti. Non siamo separati dalla nostra comunità nemmeno nel passaggio della morte. C’è una forza interiore più vasta e più profonda anche del male: questa è la fede, che è la linfa nelle radici del popolo bergamasco. Sarà la solidità su cui ricostruire le famiglie, su cui far ripartire il lavoro, su cui puntare la leva per sollevare un’economia schiacciata al suolo, su cui far forza per cicatrizzare le ferite emotive, su cui appoggiarsi per rielaborare un lutto che è stato solo deglutito, su cui mettersi in piedi per guardare l’orizzonte e ripartire. Una solidità che mi ha fatto vedere persone a pezzi aiutare chi aveva solo una crepa. Questi giorni allungano ombre di morte sulla nostra vita comune e sulle nostre famiglie e, nello stesso tempo, non possiamo fare a meno di riconoscere i segni della primavera. La resurrezione è il fiore che sboccia e che anticipa la gioia di poterne gustare un giorno il frutto. È la gemma che sta fiorendo. La nostra vita e la storia degli uomini è fatta – e lo sappiamo bene – da infinite morti e resurrezioni.



È la realtà, da cui siamo fatti, che stiamo riscoprendo?

La vita non è semplicemente un succedersi di vicende liete e di vicende tristi. Morire come Cristo e con Cristo, nelle vicende della nostra vita, è far abitare nelle nostre morti la forza dell’amore. Noi non abbiamo la forza dell’amore di Cristo, ma Lui ce la comunica. Nelle infinite morti della nostra esistenza noi possiamo risorgere come Lui, non semplicemente perché la morte passa – “ha da passà a’ nuttata!” direbbe la famosa espressione -, ma perché nella morte, e quindi nella prova e nella malattia, nella passione che non vede i risultati attesi, abita l’amore e dall’amore sempre nasce una vita nuova. E se questo amore è l’amore di Dio, nasce la vita nuova di Dio!

Per chi crede colpisce la coincidenza di questo dramma con il periodo quaresimale, come se Dio avesse voluto farci partecipi del Suo dolore fino in fondo. È così secondo lei? Come vivere questo periodo?

Ho voluto scriverlo a tutti i fedeli della diocesi. Ora che le circostanze e l’esercizio della responsabilità ci costringono a scelte che limitano la vita comunitaria, avvertiamo non solo una mancanza, uno smarrimento, per alcuni una comodità che vien meno, ma anche la moltiplicazione di interrogativi che rivelano le attese e le immagini che ciascuno di noi coltiva in relazione alla Chiesa e particolarmente a quella particolare comunità che è la parrocchia. Queste domande diventano a loro volta come una porta su altre, più profonde, che investono la fede, il modo di vivere da cristiani, di ascoltare il Vangelo, di celebrare i sacramenti e di testimoniare la carità tra noi e verso il prossimo. Queste riflessioni, che dovrebbero provocarci più frequentemente, sono alimentate, in questi giorni, da una decisione molto impegnativa: quella di celebrare l’Eucaristia senza la partecipazione dell’assemblea. Si tratta di una decisione sofferta, alla luce delle recenti disposizioni delle autorità governative, che suscita una molteplicità di sentimenti e, in alcuni casi, anche di risentimenti.

È una situazione completamente inedita, mai vissuta neanche in tempo di guerra.

Nessuno conserva memoria di tempi e situazioni in cui si sia verificata una cosa del genere. Non basta ricordare che in molte parti del mondo la celebrazione dell’Eucaristia è occasione rara e spesso richiede sacrifici non indifferenti per poterla celebrare e potervi partecipare; non basta riconoscere che anche nella nostra diocesi crescono le parrocchie nelle quali non si celebra l’Eucaristia ogni giorno; non basta ammettere che per molti battezzati l’Eucaristia è diventata un optional e che per anziani e malati spesso è solo un desiderio. Se i preti celebrano l’Eucaristia, perché i fedeli non possono parteciparvi, pur a determinate condizioni? Perché alcune attività commerciali sono consentite e aperte al pubblico e il raccogliersi insieme in chiesa no? Perché un tempo, in caso di calamità e malattie, ci si radunava in chiesa e ora ci si deve allontanare? Queste domande si accompagnano ad altre, che hanno a che fare con la fede. Se l’Eucaristia è così determinante per la vita cristiana, al punto che quella domenicale è un precetto grave, perché proprio i vescovi, custodi della fede, ne privano i fedeli? Come corrispondere al desiderio e al bisogno del pane eucaristico e del ritrovarsi insieme da cristiani nell’Eucaristia? Che significato ha che i preti celebrino l’Eucaristia da soli? Insieme coltiviamo la convinzione della necessità della preghiera e particolarmente dell’Eucaristia nei momenti della prova e del dolore. Quanti racconti e testimonianze hanno alimentato questi convincimenti. Ho avuto il dono di incontrare a tu per tu il cardinale Van Thuan e di commuovermi nell’ascoltare come riusciva a celebrare l’Eucaristia nelle prigioni vietnamite. E quanti sacerdoti, penso al nostro don Seghezzi e tanti altri, insieme ai loro fedeli si sono trovati nelle stesse o in simili condizioni.

Che cosa le dà più forza in questo momento?

L’immagine biblica che mi dà forza in questa circostanza è quella dell’esilio. Questo contagio ci sta, volenti o nolenti, esiliando dalla terra della nostra vita quotidiana, dalle nostre reali, presunte e presuntuose sicurezze, dalle nostre buone e forse meno buone abitudini. Il popolo di Dio, esiliato, perde tutto: gli rimane la fede, la preghiera e la dedicazione della propria vita agli altri, come espressione concreta della propria dedicazione a Dio. La prova, così si rivela il morbo dilagante, è il luogo del combattimento della fede. Il Signore ci indica nel silenzio e nell’ascolto della sua Parola, nella pazienza e perseveranza nella preghiera e nella carità vicendevole, le armi del nostro combattimento spirituale. Sono queste che vogliamo indossare anche noi. Ogni giorno i sacerdoti stanno celebrando l’Eucaristia per i fedeli, sebbene senza i fedeli: essi raccolgono quel “servizio sacerdotale” che è rappresentato dalla vita generosa di ciascuno e che, nell’Eucaristia, diventa un dono gradito a Dio. Le famiglie possono essere santuario della presenza di Dio. Le nostre chiese in questo momento rimangono aperte. La sofferenza di non poter partecipare alla celebrazione dell’Eucaristia, che rimane insostituibile, viene consolata dalla convinzione della misericordia di Dio per il popolo e soprattutto i più deboli e dalla più convinta adozione di uno stile eucaristico nella nostra vita. 

In questi giorni vediamo risorgere nella gente un grande senso di solidarietà, di unità.  È nel dolore che la gente tira fuori il meglio di sé, riscopre la propria umanità?

Chi è malato attende innanzitutto la vicinanza di chi lo può curare e sto vedendo una generosità enorme da parte di medici, infermieri, di coloro che stanno lavorando nei nostri ospedali, nell’ospedale più grande che è intitolato peraltro al Santo Papa Giovanni XXIII, figlio di questa terra. Già nei primi giorni della burrasca, vedendo il loro eroismo e la loro generosità, mi sono sentito di chiedere tramite le istituzioni di far giungere un messaggio su tutti i cellulari dei medici e degli infermieri, operatori sanitari e di tutti coloro che si adoperano nella gestione dell’urgenza, come forze dell’ordine o amministrativi delle istituzioni: “L’ammirazione e la riconoscenza per tutti voi mi commuovono e mi spronano nel mio servizio. Diventano Benedizione e preghiera quotidiana per ciascuno di  voi e i vostri cari. Maria, interceda per voi”. Sono poi in contatto con il Prefetto e le autorità civili, militari, sanitarie. E la stessa Bergamo intera lo riconosce: basta vedere gli striscioni con il “grazie” fuori dagli ospedali, o i post sui social. Questo fa onore ai bergamaschi. Voglio ricordare però anche le forze dell’ordine e il personale amministrativo, e tutte le persone che nel silenzio e nell’anonimato stanno garantendo i servizi indispensabili in questi giorni. Abbiamo attraversato molte crisi. La crisi economica e finanziaria non è uno scherzo. La crisi ambientale non è uno scherzo. C’è anche una crisi ecclesiale. Molte volte abbiamo detto: non sarà più come prima, dobbiamo imparare dagli errori, non dobbiamo ripeterli.

Siamo pronti a imparare?

Le famiglie faranno i conti con le perdite, i posti vuoti. Non ho ancora la risposta. Due sono gli elementi decisivi: la condivisione solidale, necessaria per venirne fuori; e l’esercizio di una responsabilità personale. Se riusciremo a crescere, almeno sarà venuto un frutto da questa vicenda terribile.

Papa Francesco le ha telefonato personalmente, un grande segno di unità e comunione. Lei al Santo Padre ha parlato “della fantasia pastorale con cui è stata inventata ogni forma possibile di vicinanza alle famiglie, agli anziani, ai bambini”. Ci può fare qualche esempio?

Come diocesi ci siamo presi l’impegno per ospitare in alcune strutture persone che vengono dimesse dagli ospedali e necessitano di quarantena, che però non possono vivere nelle loro case, perché non hanno spazi adatti, essendo che tutti sono costretti a stare nelle abitazioni, compresi i bambini essendo chiuse scuole e attività. Abbiamo costruito poi un servizio telefonico ”un cuore che ascolta” come servizio di consolazione spirituale e di supporto psicologico, con una settantina tra sacerdoti, religiosi e religiose, laici tra cui psicologi, per sostenere tutte le persone che in famiglia stanno vivendo particolari situazioni di dolore per la malattia e la morte, ma anche infermieri, medici, coloro che in diverso modo si stanno adoperando, donando eroicamente le loro forze. Come piccolo segno di attenzione nei loro riguardi la diocesi ha messo anche a disposizione 50 stanze in Seminario perché medici e infermieri, lontani dalle loro famiglie sia per il ritmo estenuante dei turni, sia per la paura di contagiare i loro bambini, possano riposarsi nelle poche pause del cambio. Abbiamo poi pensato ai poveri tra i poveri, riorganizzando strutture dove senzatetto e migranti possono vivere in modo sicuro. C’è poi lo zelo pastorale delle comunità parrocchiali. La diocesi conta 400 parrocchie circa e veramente sto vedendo manifestazioni le più disparate, fantasiose, nuove, per promuovere vicinanza. Gli uffici della Curia hanno preparato in continuazione materiale di supporto sul sito www.diocesibg.it e www.oratoribg.it. Inoltre questo ha fatto nascere fantasia di vicinanza dei preti riscoprendo i social, lo streaming, le app, le chat, le videochat, le radio, per offrire iniziative ai ragazzi a casa, riflessioni per gli adulti via chat, pillole audio con storie o canti per fare compagnia agli anziani.

Attendiamo la Resurrezione del Signore e anche del popolo italiano. Di questa esperienza che frutto si sente di testimoniarci?

Normalmente sappiamo che ci sono alti e bassi, e siamo consapevoli e attrezzati a queste variazioni. Ma qui ci troviamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso. Un’emergenza eccezionale per la potenza del morbo, eccezionale per la diffusione del morbo, eccezionale per le misure adottate per difenderci dal morbo. Questa situazione eccezionale ci riconduce, senza troppa difficoltà, a riconoscere che la vita nasconde un qualcosa di più, qualcosa di non misurabile, qualcosa che supera ogni previsione e ogni esperienza, qualcosa di più grande e di sempre più vasto, nel bene e nel male. Tutto questo ci provoca. Noi ci siamo sempre più allenati nell’esigere il controllo delle cose. Quante volte noi esprimiamo le nostre difficoltà con l’espressione “è fuori controllo”, perché il controllo ci sembra il criterio adeguato per mantenere la vita dentro argini conosciuti e rassicuranti. Parallelamente, qualcuno per non farsi incatenare dal controllo delle cose, invoca la strada dell’eccesso, con il desiderio di esperienze sempre più forti, sempre più originali, sempre più strane. Né il controllo né l’eccesso possono dare ragione di questo mistero che è la vita e ci supera.

Che cosa, allora?

La vita è incommensurabile, cioè non è misurabile, nei suoi aspetti più oscuri e nemmeno in quelli più luminosi. Questo contrasto ancor più segna la meraviglia della natura che va oltre ogni nostra capacità di poterla controllare. Penso poi alla meraviglia dell’ingegno umano, che in questi giorni vediamo applicato di fronte alla tragedia che stiamo vivendo. Ma gli uomini scavano pozzi, Dio ci offre una sorgente. Così avvertiamo la necessità di un’energia che venga da dentro. Abbiamo bisogno di uno spirito forte. Questa è la Pasqua! Molti di noi sono capaci di tanto, molti in questi giorni dimostrano di essere capaci di tantissimo, ma solo il Cristo Crocifisso Risorto è capace di dare una vita che è più forte della morte, di ogni morte e di ogni desolazione.

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