A 31 anni dalla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ma le circostanze della loro uccisione a Mogadiscio non sono state mai chiarite. Sono diversi gli eventi organizzati per ricordare la giornalista e l’operatore e tenere accesi i riflettori su una vicenda oscura. Vittime di un’esecuzione, non hanno avuto giustizia, perché il caso negli anni si è ingarbugliato tra depistaggi, misteri, reticenze e connivenze. Tutto sarebbe partito da un’inchiesta giornalistica per fare luce su eventuali traffici illeciti di armi e rifiuti.
Il mirino di Ilaria Alpi è finito sul contingente militare italiano coinvolto in “Restore Hope“, una missione Onu lanciata per stabilizzare la Somalia, devastata da povertà e guerra civile. Ma forse dietro c’erano realtà più oscure, così la giornalista cominciò a raccogliere testimonianze e ad approfondire la questione, imbattendosi in un potenziale traffico di rifiuti tossici trasportati via male.
Pochi giorni prima di essere uccisa, Ilaria Alpi intervistò il governatore locale per fargli domande su una nave sequestrata dalle milizie locali. Proprio questo incontro potrebbe essere stato decisivo e al tempo stesso fatale, perché la giornalista potrebbe aver scoperto qualcosa che non doveva uscire a galla.
ILARIA ALPI E MIRAN HROVATIN, MISTERI E INSABBIAMENTI
Dopo quell’intervista, a Ilaria Alpi arrivarono diverse minacce, poi l’agguato mortale. Si trovava a bordo di un fuoristrada con il cameraman per le strade di Mogadiscio: un commando di uomini armati cominciò a sparare. Tra i gialli che hanno caratterizzato questo duplice omicidio c’è in primis la sparizione delle prove: dai taccuini della giornalista, dove aveva scritto i suoi appunti, alle videocassette dell’operatore. Anche il certificato di morte di Ilaria Alpi andò perso. In virtù di ciò, qualcuno ha parlato di insabbiamento della verità e di depistaggi che hanno rallentato le indagini.
Del caso si sono occupate 8 procure e 4 commissioni parlamentari, ma non è mai stata scoperta la verità sulla vicenda. A finire sul banco degli imputati solo Hashi Omar Hassan, un giovane somalo testimone di un altro caso. Un connazionale lo accusò di far parte del commando che aveva compiuto il duplice omicidio. Assolto in primo grado, venne condannato all’ergastolo in appello, poi la pena venne ridotta a 26 anni. Solo nel 2016 emerse che la testimonianza del connazionale era falsa, quindi Hashi ottenne l’assoluzione e uscì dal carcere dopo avervi trascorso 17 anni ingiustamente.