Mentre sulla riforma dell’istruzione i soliti sindacati muovono guerra al Ministro e gli studenti (i soliti…) in piazza urlano assurdi slogan contro la “distruzione della scuola pubblica”, in tante scuole paritarie, anziché perdere tempo con occupazioni pretestuose e sogni rivoluzionari, si continua silenziosamente a lavorare per il bene dei giovani, a partire da quelli che hanno più bisogno. E’ quanto ci racconta il contributo inviatoci dall’Istituto Spallanzani.
Tutti abbiamo potuto osservare una classe di prima elementare all’inizio dell’anno scolastico. Dopo qualche momento di imbarazzo, i bimbi generalmente manifestano un grande entusiasmo per l’apprendimento, pieni di orgoglio per la grande avventura appena intrapresa.
È desolante pensare che a distanza di pochi mesi per alcuni di loro potrebbe scattare un meccanismo di graduale emarginazione dal sistema scolastico, perché incapaci di tenere il ritmo della classe. Si tratta di alunni che, per quanto non certificati, manifestano sensibili problemi di apprendimento, per i quali la scuola, in genere, non predispone alcuna strategia di recupero. Li si promuove fino alla fine del primo ciclo dell’istruzione, tollerandone quasi la presenza, che, d’altra parte diventa inevitabilmente indisponente e provocatoria.
Eppure, se guardati e accolti, questi bambini spesso manifestano potenzialità sensoriali, cognitive, manipolative, affettive multiformi, genialità insospettabili, facoltà a volte strane e sorprendenti.
Perché la scuola possa accorgersi di loro occorre che la sua impostazione pedagogica sia fondata su un dato essenziale: la centralità dell’alunno, che implica, come prima conseguenza, il primato della persona sul programma. Dal punto di vista metodologico, questo comporta la disponibilità dei docenti ad interagire fattivamente tra loro e con altre realtà operanti nel territorio; richiede, poi, creatività e apertura a soluzioni didattiche non convenzionali, come la possibilità di scomporre il gruppo classe, per poter seguire gli alunni individualmente o a piccoli gruppi.
La nostra esperienza ci porta ad attribuire le difficoltà di apprendimento a tre categorie di problemi: neurobiologici, psicologici, culturali.
I problemi di carattere neurobiologico sono dovuti a carenze o deficit congeniti, come i disturbi specifici di apprendimento, il ritardo mentale o l’autismo. In campo cognitivo, tuttavia, abbiamo modo di sospettare che le diagnosi degli specialisti non abbiano sempre valore apodittico, tanto che diversi alunni, inseriti in un ambiente accogliente e gratificante, conseguono risultati sorprendenti.
Siamo arrivati alla conclusione che l’handicap vero, fisiologico è molto raro.
I problemi che più frequentemente riscontriamo sono quelli di natura psicologica, causati in gran parte dalle condizioni ambientali: l’abbandono di fatto da parte della famiglia, una cattiva storia scolastica, una scarsa attenzione ricevuta come persona.
All’origine troviamo molto spesso la rottura del nucleo familiare naturale e la composizione di nuclei familiari posticci e artificiosi. Forse, da parte della società, non ci si è mai chiesto seriamente quanto dolore causino queste situazioni nei bambini e quale costo dobbiamo tutti pagare in relazione alle gravi forme di disadattamento che ne derivano.
Riguardo alla terza causa di disagio, lo svantaggio culturale, ci sembra di poterne attribuire l’origine non più alla provenienza dell’alunno da una famiglia di umili condizioni, che non trasmette correttamente il codice linguistico e gli altri dati di una cultura evoluta (vedi Don Milani in “Lettera a una professoressa”), ma alla mancanza di un rapporto educativo significativo con la famiglia, per cui l’alunno passa la maggior parte del tempo davanti al televisore, Internet, play station, chat, telefonino senza qualcuno che lo accompagni e lo stimoli a sviluppare le potenzialità affettive e cognitive di cui è dotato. Questo tipo di disagio non riguarda un particolare ceto, ma è trasversale all’intero corpo sociale; anzi, spesso gli ambienti più colpiti sono proprio le classi sociali più agiate.
Le strategie che abbiamo messo in atto per affrontare le difficoltà di apprendimento sono le più svariate, anche perché le forme che esse presentano sono sempre diverse. A questo scopo la scuola deve essere disponibile ad una grande flessibilità operativa.
Un esempio, ormai lontano nel tempo, ma sempre significativo, è quello di M., una bimba affetta da una grave forma di distrofia muscolare, che non poteva muoversi dal letto e parlava a stento. Le erano stati decretati sei mesi di vita. Nell’ ’82, quando ancora non esistevano PC e, tanto meno, Internet, installammo in classe un sistema di videotrasmissione con telecamera, antenne, televisore, completato da un impianto radio CB, inventando, con diversi anni di anticipo, la comunicazione in videoconferenza. M. seguiva le lezioni dal suo letto, intervenendo anche via radio. La bimba, con sorpresa di tutti, invece che peggiorare migliorava, tanto che in terza media poté seguire le lezioni in classe, coi suoi compagni non più virtuali. Non solo. Completò tutto il ciclo delle superiori, si iscrisse all’università e superò diversi esami.
In diversi altri casi la nostra scuola si è attivata con iniziative didattiche specifiche nell’intento di affrontare particolari problemi. Abbiamo, tuttavia, maturato alcune prassi applicabili in generale a qualsiasi problema di apprendimento.
Il nostro metodo nasce da uno sguardo sull’alunno che ne vuole cogliere l’unicità come persona, il bene che costituisce e le potenzialità a volte imprevedibili e inimmaginabili di cui sempre è dotato.
L’attività didattica, di conseguenza, non è centrata sul programma, ma sull’alunno, ben sapendo che condizione primaria del suo successo è una relazione affettivamente significativa non solo con l’insegnante di sostegno, ma con tutto l’ambiente educativo in cui egli è inserito: personale docente e non docente, compagni di classe.
L’alunno deve potersi sentir dire dall’adulto educatore: “siamo insieme io e te, non sei solo, ti stimo per quello che sei, ti prendo per mano”. Si intraprende, così, un’attività di recupero che può essere individuale o a piccoli gruppi, in parallelo alle lezioni svolte in classe. I gruppi si compongono e si scompongono a seconda dei bisogni manifestati e del grado di preparazione acquisito da ogni alunno. Per ognuno viene sviluppato un percorso personalizzato, fondato sulle sue reali esigenze e non su obiettivi astratti. Il programma viene talvolta differenziato, talvolta ridotto, talvolta semplificato, sempre puntando al fatto che ogni alunno, nei momenti di presenza in classe, possa dire: “So di cosa parla l’insegnante, lo capisco, intervengo, interagisco; non sono emarginato.”
La personalizzazione dei percorsi si attua nella normale prassi didattica, aderendo alle abilità e ai bisogni mostrati dall’alunno e mediante colloqui continui e informali tra insegnanti di classe e insegnanti di sostegno – assistenti. Viene, poi, codificata e verificata all’interno dei consigli di classe e di un gruppo di lavoro sul disagio di apprendimento.
Si crea, così, intorno all’alunno, una effettiva comunità educante, nella quale egli si sente accolto a 360 gradi.
Gli esiti verificati di questa metodologia sono tre:
· la possibilità per ogni alunno di acquisire conoscenze e abilità rapportate al suo grado di ricettività;
· la possibilità per ogni alunno di acquisire una competenza sufficiente ad interagire con la classe nei momenti di colloquio e quindi di realizzare una effettiva socializzazione con i compagni
· la motivazione e l’interesse allo studio e più in generale alla conoscenza anche da parte di alunni normalmente considerati non predisposti per un buon esito dell’attività scolastica.
Nell’anno scolastico scorso sono stati seguiti in questo modo 40 alunni per 129 ore settimanali, con la collaborazione di 9 tra insegnanti di sostegno e assistenti.
Un alunno preveniente da un orfanotrofio di Bucarest, iscritto nella nostra scuola fin dalla prima elementare, ha terminato, lo scorso anno scolastico, la seconda media.
Inizialmente la sua situazione comportamentale e cognitiva era spaventosa; mostrava atteggiamenti del tutto imprevedibili; a pranzo si gettava talvolta sotto il tavolo per mordere i polpacci dei compagni, creando lo scompiglio generale. Era preso spesso da crisi di angoscia e dondolava continuamente il tronco, nell’atteggiamento tipico di chi è affetto da certe patologie psichiatriche. Naturalmente le materie scolastiche, lo studio erano per lui il più estraneo dei problemi. La nostra scuola lo ha seguito fin dalla prima elementare con insegnamento individualizzato o nell’ambito del piccolo gruppo, senza fargli mai perdere il contatto con la classe.
L’alunno, ora, non solo ha un rapporto sereno con compagni e insegnanti ma ha imparato a studiare e sta manifestando uno spiccato interesse per la musica, la storia e la geografia.
L’ultimo giorno di scuola era molto agitato. L’insegnante di lettere gliene chiese ragione. “Sono nervoso, nervoso, nervoso” fu la risposta. “Perché ?” insisté l’insegnante” “Perché per tre mesi non potrò più vedere Ileana, Federica, Loretta, Beppe…” e così via, citando nominalmente ogni insegnante e ogni operatore interno alla scuola: segretarie, bidella, cuoche.
Il resto della sua famiglia.
Giuliano Romoli
Coordinatore delle attività educative e didattiche
dell’Istituto paritario “Vladimiro Spallanzani” di Casalgrande (RE)