È quasi venuto a noia il discettare su maestro unico vs. team di docenti nella scuola primaria.

Ci sembra però opportuno fare alcune precisazioni a fronte di esperienze che numerosi istituti paritari stanno portando avanti da alcuni anni in merito all’organizzazione delle risorse umane presenti nella scuola.

Maestro unico non designa una sola persona che opera ed interagisce in una classe. Il maestro unico è il punto di riferimento privilegiato per gli alunni i quali, peraltro, vengono ‘esposti’ alla presenza di altri docenti che stanno con loro un numero ridotto di ore, non per questo in modo meno significativo ed efficace educativamente e didatticamente.

Sarebbe anacronistico ed irreale pensare ad un solo docente depositario e trasmettitore di tutto lo scibile umano; è anche vero che con l’enfatizzazione dei ‘moduli’ (e a volte della loro applicazione distorta) si sono create le condizioni per una pesante ‘secondarizzazione’ della scuola primaria.

In alcune situazioni i moduli hanno avuto effetti quantomeno confusivi perché sono venute a mancare determinate condizioni che, modulo o non modulo, sono condizione necessaria per rendere una classe “ambiente per l’apprendimento” (per riprendere la definizione presente nelle “Indicazioni” del 2007).

Vediamo le condizioni perché il maestro unico non sia ‘professionalmente solo’, ma sia una parte importante ed attiva di un team di docenti che in primis operano su una classe, in seconda battuta custodiscono il senso di appartenenza ad un’intrapresa educativa di tutta la scuola.

La scuola deve dichiarare la propria identità e la propria mission educativa attraverso la stesura di un POF  che precisi e chiarisca semanticamente le parole chiave di un progetto educativo.

I significati delle parole chiave (persona, cultura, materia/disciplina…) devono essere condivise da tutti i docenti e tradotti in metodo educativo che faccia da terreno fertile e comune su cui innestare le azioni didattiche.

Un tale tessuto connettivo consente ai docenti di affrontare le discipline (quelle del core curriculum e quelle specialistiche) a partire dalla valenza formativa propria della singola disciplina che va a sostanziare gli intenti formativi e culturali generali che la scuola persegue.

Condizione perché ciò accada è la presenza nell’istituzione scolastica di una leadership forte che agisca coerentemente con i tratti caratteristici disegnati nel POF. Una leadership che guardi all’organizzazione con occhiali pedagogici e culturali e che sappia gestire le risorse umane presenti nella scuola con l’intelligenza (intus-legere) dei talenti e del patrimonio culturale e professionale: elementi questi che possono richiedere a volte modifiche organizzative.

Ci sia permessa la citazione di un accademico francese – Alain Bouvier, professore dell’università di Poitiers – che in un’intervista così si è espresso definendo le caratteristiche e le competenze di un buon dirigente scolastico: «E’ prima di tutto un professionista, cioè un soggetto che pone degli obiettivi e li raggiunge. I suoi obiettivi non sono idee vaghe e generali. Può precisarli in termini di indicatori di risultato (e di qualità) facendo ricorso a parametri misurabili. Inoltre, li raggiunge,e ciò sta a significare che agisce, si preoccupa continuamente dei risultati, dell’efficacia e della qualità della sua azione e la regola di conseguenza. E’ anche un professionista di una tipologia particolare. Innanzitutto egli opera in un settore essenzialmente intellettuale e umano, dove l’azione si definisce in rapporto a obiettivi, ma soprattutto è sottesa da valori e da un’etica. Oltre che dell’efficacia, questo professionista, si preoccupa della pertinenza e dell’efficacia. Interseca umanesimo ed economia, cercando di non ridurre l’uno all’altro. Il progetto collettivo di cui definisce l’elaborazione, che poi guida, accompagna e valuta, si basa su risorse umane. Si prefigge soprattutto di mobilitarle, di trasformare degli ‘agenti’ dello Stato in ‘attori’ responsabili». (da www.indire.it)

In Italia ci sono esempi coraggiosi di scuole anche pubbliche in cui un’illuminata dirigenza ha trasformato l’istituzione scolastica da una presenza casuale di risorse umane in un appassionato e consapevole e corresponsabile gruppo di lavoro per l’alunno e con l’alunno.

Allora il problema del maestro unico è malposto se non è inserito in un quadro di riferimento più ampio che pone l’interrogativo sul profilo professionale di un dirigente scolastico in regime di autonomia (formale o reale?).

Perché non si ritorni ai tempi dei programmi del ’55 ed alla ri-consacrazione del maestro tuttologo occorrono almeno due condizioni:

Una dirigenza che attui un management ispirato alla costruzione di comunità di pratiche e di comunità educative e culturali in cui il docente si senta soggetto attivo, responsabile in prima persona ma non solitario.

Docenti caratterizzati precipuamente come professionisti relazionali-comunicativi, culturali, metodologico-didattici.

La competenza relazionale-comunicativa consente al docente di acquisire solidità e condivisione nel gruppo per essere poi (in qualunque disegno organizzativo), nella propria classe, protagonista a partire da una collegialità di intenti e di cultura. Magari da solo, ma non solo.

Se i docenti non sanno lavorare in un gruppo ‘professionale’ con finalità precise (almeno promuovere il sapere non in modo frammentario) gli alunni, anche di fronte ad un maestro unico, si trovano di fronte a segmenti scollegati di saperi e di competenze. (i cosiddetti “specialisti” sono comunque auspicabili nella scuola del terzo millennio).

Gabriele Boselli, sul sito di “Edscuola”, stigmatizza con chiarezza il bisogno degli alunni (in fondo i più dimenticati nell’attuale dibattito): «I ragazzi hanno bisogno di un volto che – insieme ad altri volti – racconti dell’Intero; hanno bisogno di segni essenziali di indicazione; non possono essere lasciati nel nichilismo della frammentualità ma nemmeno nella rarefazione del conoscere che conseguirebbe a una forte diminuzione del numero dei docenti. Gli insegnanti e chiunque abbia un ruolo educativo devono aver modo di detenere uno spazio proprio, per dire qualcosa di proprio nella relazione con gli altri, per essere se stessi anche grazie ai colleghi consentendo agli alunni di attuare il loro essere nella pienezza dell’ambiente pedagogico».

Per numerose scuole che conosciamo e seguiamo una tale realtà  è già in essere: dimostrazione che l’ideale è possibile.

Feliciana Cicardi

Supervisore pedagogico-didattico, “La Zolla”, Milano