La formazione professionale in Italia resta al palo. Vero è che l’obbligo di istruzione «potrà essere assolto anche con la frequenza dei percorsi di istruzione e formazione triennali avviati attraverso accordi regionali».; sappiamo tutti, però, che non poche Regioni sono contrarie all’assolvimento dell’obbligo nei CFP. Inoltre, dopo le interessanti proposte della legge “Moratti” (53/03), che istituiva un doppio canale ad elevata permeabilità fra istruzione liceale e istruzione-formazione professionale, il successivo Ministro ha “smontato col cacciavite” la riforma e quello attuale non sembra intenzionato a ripristinarla. Anzi, le proposte presentate ad oggi prefigurano un sistema di istruzione rigidamente diviso tra indirizzi liceali e indirizzi tecnici, relegando ancora una volta la formazione professionale al ruolo di bacino di raccolta degli “scarti di produzione” del sistema scolastico nazionale.

Eppure, secondo le indicazioni del documento di Lisbona del 2000, lo sviluppo dell’IFP è una priorità sempre più strategica per l’Ue dal 2000 al 2013: dal 2002, il processo di Bruges/Copenhagen/Maastricht promuove infatti la convergenza dei sistemi di istruzione (education) e formazione professionale (vocational training) dei Paesi membri nel profession Vocational Education and Training (VET). I conseguenza di ciò, 19 Paesi su 25, tra cui l’Italia, hanno introdotto o avviato questa innovazione-chiave nei loro sistemi educativi per coniugare cultura e professionalità; l’Italia deve colmare una distanza di almeno 25 punti rispetto alla media dei Paesi Ue, riferita al numero dei giovani che frequentano percorsi a orientamento professionale. Ma perché questo gap? E perché questa resistenza alla valorizzazione della cultura del lavoro e alla formazione?

Per certi aspetti probabilmente occorre tornare un po’ indietro nel tempo, alla istituzione della scuola media unica (1962): fino ad allora, il triennio che si inserisce tra le scuole elementari e gli studi superiori era nettamente diviso in due binari: vi era una scuola media a carattere più “letterario” e una scuola di avviamento professionale, che a seconda delle zone del Paese acquisiva un indirizzo industriale o agricolo. Coloro che frequentavano il cosiddetto “avviamento” erano orientati a un rapido inserimento nel mondo del lavoro: agli sbocchi dell’industria, dell’artigianato, dell’agricoltura. Per gli altri, invece, la prospettiva era il proseguimento negli studi superiori. All’inizio degli anni Sessanta, in un periodo storico che coincideva con l’esaurirsi della esperienza di governo centrista e con l’avvento del centro-sinistra, si decise che tale diversificazione era una disuguaglianza e che a sua volta tale disuguaglianza rappresentava una insopportabile ingiustizia. Nasceva così la scuola media unificata: un indirizzo unico con una molteplicità di materie che riproduceva in piccolo –e in peggio- la struttura delle scuole superiori.

Veniva così cancellata “ope legis” la consapevolezza che nelle nuove generazioni esistono talenti diversi: se è vero che alcuni sono più portati per lo studio, è altrettanto vero che altri sono più portati per le attività pratiche, e “imparano facendo”. Poi, facendo e imparando a fare, talvolta si appassionano anche ad argomenti culturalmente più raffinati, perché cresce la stima di sé ed il desiderio cimentarsi con il reale in tutti i suoi aspetti. Una maggiore attenzione educativa avrebbe quindi dovuto suggerire l’idea che il doppio canale era da mantenere e che semmai bisognava arricchire di valenze culturali l’avviamento professionale. Ma all’idea del lavoro manuale si collegava, purtroppo, l’ideologia dello sfruttamento di classe e della disuguaglianza sociale, per cui ogni esperienza di formazione professionale fu spostata in avanti nel tempo e relegata al ruolo marginale di ultima spiaggia per chi proprio non ce la fa a studiare.

L’ideologia egualitarista, tra l’altro, si innestava su uno dei problemi di fondo del nostro sistema educativo: viviamo in un Paese la cui tradizione classica, che di per sé rappresenta una immensa ricchezza, rischia di essere interpretata in modo riduttivo e unilaterale, trasformandosi in una chiusura preconcetta nei confronti di ogni forma di cultura che non si identifichi con un apprendimento di conoscenze teoriche. L’idea che l’essere umano, per la sua stessa struttura polivalente, si possa esprimere, oltre che nel puro «sapere», anche nel «saper fare», è da noi – a differenza che altrove – sostanzialmente estranea alla maggioranza delle persone. Col risultato che molti di coloro che potrebbero realizzare la propria personalità sviluppando le loro attitudini prevalentemente pratiche, attraverso un percorso formativo che le valorizzi adeguatamente, di fatto non prendono neppure in considerazione, alla fine della scuola media, una simile scelta e si ostinano a continuare studi per cui non sono tagliati e che li condannano spesso all’insuccesso scolastico oppure, nel migliore dei casi, a uno stato di mediocrità e di frustrazione. Di qui la forte incidenza della dispersione scolastica ed il curioso fenomeno per cui l’Italia si trova ad essere tra i Paesi del mondo che hanno il maggior numero di iscritti all’università e il minor numero di laureati…

Da qui anche la tendenza ad allungare i tempi di assolvimento dell’obbligo scolastico, dimenticando che insegnare un mestiere può costituire un formidabile strumento per valorizzare attitudini e capacità ed aiutare l’emergere dei talenti che ogni persona porta dentro di sé; dunque un metodo educativo, e non un mero addestramento per l’inserimento di una nuova rotella nell’ingranaggio del sistema produttivo! L’esperienza ci mostra, tra l’altro, che la permanenza nel percorso di istruzione ad ogni costo non serve ai fini orientativi, perché i ragazzini demotivati e costretti a frequentare percorsi di studio che non corrispondono assolutamente alle proprie attitudini, non utilizzano certamente il tempo per verificare la propria vocazione…E non serve ai fini formativi, perché dopo alcuni anni di conseguenti e ripetuti insuccessi scolastici i ragazzi hanno appreso unicamente la cultura del cinismo e del disimpegno. Sempre l’esperienza ci documenta che quando questi medesimi ragazzi, frequentando Cfp di alta qualità, si appassionano a qualcosa, trovano risorse, motivazioni e strategie d’azione che sono davvero insospettabili: sono numerosi i casi di allievi che, dopo i tre anni di corso, tornano alla scuola superiore per proseguire con l’università; tanti altri diventano imprenditori.

Giustamente affermò un giorno Aristotele che “non c’è ingiustizia più grande del rendere uguali cose che sono diseguali”. 

In sintesi, ad oggi la formazione professionale in Italia paga il dazio ad una concezione intellettualistica dell’educazione e della cultura che considera il lavoro manuale – per intenderci quello che ha reso grande l’Italia nel mondo, con le sue piccole e medie imprese artigiane – una forma di subalternità culturale e di arretratezza sociale.

Non si tratta, qui, di favorire una scuola di serie B funzionale alla divisione di classe. Al contrario, il problema è consentire la sempre maggiore qualificazione di un canale dove, grazie a un approccio non teorico ma pratico, tutta la persona trovi la sua fioritura. Nel nostro paese esistono oggi numerose realtà in cui questo accade: dove la legislazione regionale lo ha consentito il sistema della FP ha conosciuto un sensibile incremento e incontrato un ampio gradimento da parte delle famiglie e degli studenti.

Chiediamo dunque a chi governa di guardare ai frutti e di valorizzare la pianta: non è sufficiente per questo riconoscere la possibilità di assolvere l’obbligo scolastico nei percorsi triennali: occorre una strategia di più ampio respiro che restituisca alla formazione professionale pari dignità rispetto al canale dell’istruzione (fino alla possibilità di accedere attraverso un anno propedeutico anche all’Università) e che aiuti a riconoscere il grande contributo che la cultura del lavoro può dare all’educazione delle nuove generazioni e allo sviluppo del nostro paese.