Un docente della scuola paritaria Gaspare Bertoni di Udine ci ha inviato una splendida testimonianza, che abbiamo desiderato far conoscere a tutti. Si parla molto, infatti, e spesso in termini negativi, della scuola italiana. Si parla spesso anche di riforme, di cambiamento, perché le cose finalmente possano funzionare. Ma in Italia – come ci documenta questa testimonianza – un pezzo di scuola che funziona esiste già, come del resto esistono tanti insegnanti/educatori che lavorano con passione e intelligenza.
Un invito: anziché perdere tempo ed energie in infinite diatribe politiche e ideologiche su come dovrebbe essere la scuola, diamo spazio, facciamo innanzitutto crescere queste realtà che testimoniano un positivo già in atto: “molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità….”
IlParitario.net
Ho partecipato pochi giorni fa ad una riunione di un gruppo di lavoro costituito da varie scuole in rete.
Il tema dell’incontro era relativo ai rapporti tra docenti e genitori nella scuola.
Gli interventi erano costituiti da un susseguirsi di lamentele circa le ingerenze dei genitori nella vita della scuola (genitori preoccupati per l’entità dei compiti a casa, insoddisfatti per i voti dei loro “geni”, ecc.) oppure da lagnanze per quella che si può chiamare una “assenza” delle famiglie nella vita scolastica (mancanza di partecipazione alle riunioni, ritardi nelle comunicazioni, passività dal punto di vista di proposte o di feedback alle sollecitazioni dei docenti, ecc.). L’unica strada: mantenere rapporti strettamente formali!
Ho preso la parola e ho raccontato un fatto: durante l’ultima riunione, un papà di un alunno di terza media mi ha raccontato il più bel giorno di scuola per lui come padre. Era il primo giorno di scuola per suo figlio, iscritto alle elementari presso il Bertoni. Fuori dalla porta della scuola, in attesa della campanella, un folto gruppo di genitori e bambini emozionati. Esce la coordinatrice e afferma, visibilmente imbarazzata e dispiaciuta, che c’era un problema: l’autoarticolato che trasportava i banchi non era ancora arrivato per un problema in autostrada. I genitori che potevano si sono fermati insieme ai bambini, quando il camion è giunto è stato accolto da applausi adatti per un rientro dello Shuttle, padri, madri e bambini, insieme alle maestre si sono messi a scaricare e a portare nelle aule i banchi sui quali i loro figli avrebbero imparato a scrivere le prime parole e a leggere le loro prime frasi. Quel papà mi diceva che da quel momento aveva sentito il Bertoni come una cosa anche un po’ sua…
È questo il punto, dicevo: i genitori non sanno come muoversi spesso a scuola perché è un luogo non loro, che non appartiene alla loro esperienza, un pezzo di realtà nel quale non hanno mai messo le mani.
Riprendendo un passaggio di un’insegnante, dicevo che è vero che i tempi sono cambiati, però il cuore dell’uomo (e dei ragazzi) è sempre lo stesso: un infinito desiderio di felicità e di bene, di volere bene e di essere voluto bene. Per questo motivo la scuola, senza perdere la propria identità di luogo ove si educa attraverso l’istruzione, non può sottrarsi, in questo momento storico, ad essere anche luogo di rapporti, di incontri, di trame interpersonali tra studenti e anche tra genitori (perché la solitudine che caratterizza tanti ragazzi è anche la cifra significativa di tante famiglie e, perché no, di tanti insegnanti, specialmente di quelli che passano la giornata lamentandosi con altri colleghi rispetto a ciò che non funziona, senza cercare interlocutori, ma chiudendosi a riccio in una difesa autoreferenziale). La scuola può essere luogo di rapporti, dunque, come ci mostrano i dati di un sondaggio effettuato tra le famiglie dei nostri studenti: ciò che i genitori chiedono è di partecipare più attivamente alla vita della scuola (chiedono di poterci dare una mano, e noi di tale mano abbiamo necessità in quanto la comunità educante è formata da genitori e insegnanti, non da insegnanti soltanto!).
Alcuni studi pedagogici condotti negli States dimostrano che dall’accordo educativo tra scuola e famiglia ci guadagna fortemente la didattica! Non possiamo pensare di star davanti ai ragazzi come se fossero zainetti da riempire, non possiamo considerarli astrattamente rispetto ai loro contesti di vita ed ai loro ambienti, prima fra tutti l’ambiente famigliare.
In merito alla questione dei rapporti formali o informali, ponevo la seguente questione: “quando un genitore mi ferma sulla porta della scuola per ringraziarmi di una parola detta a suo figlio o mi chiede una cosa, e io gli rispondo e parlo con lui, sono in un contesto formale o informale? Non lo so e non mi interessa! Non parlo mai (o cerco di non farlo…) da “professore” o da “amico” o “mettendomi nei panni del genitore”, “di didattica” o “di altri argomenti non attinenti alla scuola”: prima di essere insegnante, professore, coordinatore, ecc. sono un io! E da io, mi rapporto ad un altro io: più tengo presente le mie esigenze umane, più saprò “gestire” un dialogo, senza patemi formali e senza preoccupazioni legate al ruolo! L’unico elemento indispensabile è che il cuore sia desto, le esigenze più vere della mia natura devono essere sveglie! Solo così riuscirò a comprendere il desiderio di un genitore di poter passare un po’ di vacanze con il suo giovane figlio e di non essere oberato di compiti, solo così potrò fargli capire perché vale la pena che comunque suo figlio lavori anche a casa (mi metterò in discussione: o taglio, o considero le critiche come uno spunto per me per andare a fondo del mio mestiere: come quando uno studente mi ha chiesto perché valga la pena studiare una certa guerra… visto che erano già tutti morti da tempo! O mi offendo e gli metto una nota o accetto la sfida e cerco in me le ragioni che rendono lo studio di quel dato conflitto una cosa ragionevole, non un pallino per esperti del campo, non un “dovere” e basta, ma qualcosa che renda tale atto un atto umano, giusto, buono, teso al mio bene!) perché fare scuola vuol dire cercare il bene proprio e dei ragazzi, insieme a quello dei loro genitori! Senza questo orizzonte non regge neppure la didattica, perché essa passa per un rapporto educativo: senza rapporto non si dà educazione e dunque nemmeno insegnamento. Forse, addestramento… ma, secondo me, nemmeno quello!
Volevo dire due parole, mi sono trovato a parlare per più di dieci minuti…
La coordinatrice dei lavori ha affermato che nei gruppi (perché ci dividiamo sempre in due gruppi dopo il momento iniziale comune) non avremmo lavorato sui suoi appunti, ma sul mio intervento.
Mi è venuta a cercare e mi ha detto che quanto io avevo affermato era da testimoniare ai giovani insegnanti, occorre mostrare loro che queste cose sono vita vissuta, almeno in qualche scuola, almeno da qualche docente… perciò mi ha proposto di pensarci seriamente all’ipotesi di inserirmi in qualche corso di formazione per insegnanti, che lei stessa mi proporrà qualcosa…
La seconda cosa che mi ha colpito è successa nel mio gruppo di lavoro: è imbarazzante che il lavoro verta su quanto hai appena finito di affermare, di sentire le “risonanze” (come le chiamano) di quello che hai detto filtrate dall’esperienza di colleghi quasi sconosciuti…
Una collega di un Liceo, fiera insegnante di Letteratura Italiana, ha detto subito, senza tanti giri di parole: “Penso che nulla di quanto detto dal collega possa reggere senza un riferimento Altro, senza un Assoluto sul quale tutta la vita e tutto l’io poggi, che non lo renda succube dell’esito (non ha usato questa ultima espressione, ma ciò che diceva era questo, seppur con altre parole). Io, ad esempio, porto i miei figli a Messa tutte le domeniche. Il problema è che il mondo ha messo da parte Dio: basta pensare ai bus pro-ateismo di Genova!”.
Il tema è diventato Dio! Io non avevo parlato di Lui… la cosa mi ha fatto intuire una questione: la testimonianza passa attraverso ciò che ci è chiesto… è Lui che passa, non noi che lo facciamo passare! A noi è chiesto di essere fedeli al luogo che ci educa (che coincide misteriosamente con la Sua stessa Persona attraverso i volti delle persone da Lui poste), il resto lo fa accadere Lui, e quando accade ci sorprende sempre!
La terza (e per me la più commuovente) cosa successa, sempre in quel pomeriggio, è stata la seguente. Una professoressa un po’ avanti negli anni, ma con lo sguardo e la figura ancora piena di vitalità, mi viene vicino e mi dice: “Le tue parole mi hanno messa in crisi… il nostro è proprio il più bel lavoro, come dici tu, ma io ho fatto domanda di pensionamento… ora mi hai fatto sorgere dei dubbi…”. Le chiedo: “perché vuoi andare in pensione?” “Per andare da mia sorella, che è rimasta vedova e ha tre figli: finché c’era suo marito, ok, ma ora… Ha bisogno del mio aiuto”. “Era giovane suo marito?” “Era un uomo pieno di energie, era insegnante, catechista, allenava una squadra di calcio giovanile…”. Io mi immagino la scena: un uomo tuttofare che improvvisamente viene a mancare lasciando moglie e figli… Le chiedo: “E di cosa è morto?” “Di SLA, come Welby… da più di un anno era immobile a letto, non poteva più nemmeno usare il computer per comunicare… Finché c’era lui, mia sorella non aveva bisogno di nulla, bastava la sua presenza, ma ora è sola, con i figli… Devo aiutarla… Una famiglia bellissima, si volevano tanto bene, fino all’ultimo momento… l’ultima frase scritta al computer è stata se Dio ha permesso questo, vuol dire che va bene così. Aveva tanta fede… Se non c’è la fede e se manca l’amore capisco che vengano strane idee di staccare spine e altre cose… ma se c’è fede e amore è impensabile: è una vita, è un dono quell’uomo, è uno che insegna ad amare… ma queste cose non le dico a nessuno, mi prenderebbero per matta, le ho dette solo a te, perché mi pare, da quello che hai detto prima rispetto alla scuola, che queste cose sicuramente le capisci…”
Non aggiungo altro: è stato un momento di Grazia che spero e prego porti frutto nella mia vita.
Paolo Del Pozzo, Udine