Ci sono tante cose da raccontare della vita delle nostre scuole: momenti significativi vissuti dai ragazzi, gite, incontri, progetti. Una cosa di solito rimane sullo sfondo: il lavoro dell’insegnante, che si indovina un po’ in controluce; eppure è su questo lavoro che si fonda la scuola.

E’ il lavoro che nasce dal bisogno di imparare. Senza questo bisogno non si vive a scuola, non si vive. Perché non si sa perché studiare. Vale per i ragazzi, vale anche per noi stessi. Certo, anche gli indirizzi che negli ultimi anni ha preso la riforma della scuola – la nostra infinita e confusa riforma – cercano di rispondere a esigenze che ci sono. Il 5 in condotta, gli esami di riparazione, la promozione col 6 “effettivo”, il ritorno del merito. Non diremo che sono inutili. Ma non c’è riforma che tenga se non c’è, prima, il bisogno di imparare degli alunni e degli stessi insegnanti. E, non dimentichiamolo, dei genitori. Degli adulti. E per imparare intendo imparare da tutto, dalla vita, da quello che ci accade. Da Qualcuno.

Ecco il lavoro dell’insegnante. E’ quello che racconta la prof. Vida in questo articolo.

“Non c’è niente che mi interessi, nessuna materia che mi affascini, tranne forse biologia perché mi mette in contatto con la realtà. Perché studiare? A casa preferisco lanciare per due ore una pallina contro il muro che aprire i libri!”

Queste le parole di uno dei miei studenti. Ma il suo non è un caso isolato: è la testimonianza di come molti ragazzi affrontano oggi la scuola e, più in generale, la vita. Annoiati. Manca lo stupore, la meraviglia, il desiderio di sapere, la gioia di scoprire. E’ l’apatia che livella tutto, che non permette di riconoscere la vita come dono, con tutto ciò che ne consegue. E così succede che qualche volta cerchino il rischio estremo, la trasgressione forte perché, in fin dei conti, il cuore di questi ragazzi non è fatto per la noia ma per l’entusiasmo, la passione, il coinvolgimento. Esprimono, con questi modi scomposti, una domanda forte di senso.

Ovviamente non è così per tutti ma io, come insegnante, come mamma, come educatrice, come adulta, non posso rimanere indifferente alla provocazione che mi lanciano proprio questi ragazzi. Me lo dicono chiaramente: hanno bisogno di una scuola che riattivi i contatti con la realtà, di una scuola che inneschi nuovamente lo stupore, di una scuola in cui trovare i motivi per cui valga la pena non solo studiare ma addirittura vivere. E allora non serviranno più sostanze eccitanti perché la vita stessa sarà eccitante.

Mentre rifletto sulle mie responsabilità, ripenso alle parole che lo stesso ragazzo, non un altro, mi ha detto solo qualche mese fa: “Lei, professoressa, sa rendere interessante qualsiasi cosa. Io rimarrei affascinato ad ascoltarla anche se mi leggesse solo la sua lista della spesa”.

Ecco dove sta la risposta. Questi ragazzi hanno bisogno di maestri che li accompagnino nell’avventura della vita. Hanno bisogno che io non sia solo un’insegnante di latino: hanno bisogno che io sappia mostrare loro come tutto ha un senso, tutto è bello, ogni particolare val la pena di essere vissuto, a partire dalla lista della spesa. Per insegnare questo è necessario che io per prima abbia scoperto che tutto ha un senso o che abbia scoperto chi o che cosa dà senso a tutto. Io so di averlo scoperto, anche se non sempre sono capace di testimoniarlo: so che solo Gesù Cristo, nella mia vita, è stato capace di dar senso a tutto, fin nel particolare, fin dentro le esperienze che non avrei voluto vivere ma che sono diventate momenti di grazia speciale. E Gesù Cristo non è una risposta filosofica alla vita, non è un’idea: è una presenza viva, concreta, reale che mi accompagna nelle persone che mi vivono accanto, con cui faccio strada, con cui condivido la vocazione all’insegnamento.

E così non serve che faccia catechismo ai ragazzi per mostrare loro chi è che dà senso alla mia vita. Per me la vita è una realtà bella e altamente ragionevole, in cui i fatti ne mostrano la positività, ma è anche una realtà in cui il male e la sofferenza possono acquistare senso alla luce del Mistero. 

Posso dunque insegnare latino e mostrare loro quanto sia affascinante il metodo della ragione mentre cerchiamo insieme il senso di una versione; posso insegnare storia e mostrare loro come i fatti siano qualcosa di estremamente serio a cui prestare fede o, laddove manchino le testimonianze, come sia bello cercare l’ipotesi più ragionevole; posso insegnare letteratura e mostrare loro come ci si possa sentire fratelli degli uomini che ci hanno preceduto perché, come noi, hanno sperato, desiderato, amato e, soprattutto, cercato quel senso ultimo che rispondesse al bisogno di felicità che avevano dentro.

Non sempre riesco ad essere una buona insegnante, ma so quando lo sono: quando i miei ragazzi si accorgono che ciò che facciamo in classe li tocca personalmente, risponde alle domande vere del loro cuore, incrocia la loro esperienza. Certo, ciò succede quando io ho ben chiaro cosa sto proponendo e chi ho davanti, ma anche quando loro sono disponibili a dire “sì” a questa bella avventura del sapere che diventa l’avventura della vita, quando sono disponibili a lasciarsi guidare. Il problema non sta nel fatto che non siano capaci di dire qualche “sì”, ogni tanto: il problema sta nel fatto che si dimenticano quanto è stato bello dire “sì”. Questo il nostro compito di adulti: aiutarli a dire “sì” ogni volta, seriamente, per sempre. Ne va della loro felicità.     

Prof. Lucina Vida

Fondazione Gaspare Bertoni- Udine