Nel giorno in cui Fim, Fiom e Uilm hanno proclamato 24 ore di sciopero contro il recesso dal contratto e contro i 5mila esuberi dichiarati da ArcelorMittal e nel bel mezzo di dichiarazioni più o meno bellicose rivolte dagli esponenti M5s alla multinazionale indiana, il premier Giuseppe Conte è volato a Taranto, varcando i cancelli dell’Ilva per incontrare sindacati, operai e cittadini. E se all’interno dello stabilimento sono iniziate le operazioni di spegnimento degli altiforni, per i lavoratori dell’indotto – che sono in tutto circa 10mila – sono partite le prime lettere per la cassa integrazione. Il nodo dell’Ilva, anziché sciogliersi, sembra aggrovigliarsi sempre più, tanto che Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl, vede “aleggiare lo spettro di una Bagnoli 2”.



A Taranto è iniziato lo spegnimento degli altiforni, non si accettano più nuovi ordini e i Mittal sono rientrati a Londra. Partita chiusa?

Ogni giorno che passa le possibilità di riaprire si riducono. La politica ha fatto di tutto nella peggiore delle ipotesi per far andare via l’azienda e nella migliore delle ipotesi per costruirgli un buon alibi per gettare la spugna e lasciare di nuovo stabilimento e lavoratori in amministrazione straordinaria. È un vero disastro totale, il Paese non si sta rendendo conto di che cosa questo significhi, continua a dar retta a troppa gente disinformata che non capisce la portata di questa operazione.



Nel caso si chiudesse la partita con il recesso di ArcelorMittal, a pagare il prezzo più alto saranno gli operai, che si sentono abbandonati. Chi li ha “traditi” di più: il governo o ArcelorMittal?

Un po’ entrambi, ma l’asticella fa prevalere le responsabilità politiche. Nella vicenda Ilva la politica fin dagli anni Settanta non è mai riuscita a fare quello che riesce nel resto del mondo: conciliare ambiente e produzione. L’acciaio e l’ambiente litigano solo in Italia.

Perché?

Perché in Italia è politicamente troppo conveniente litigare su questi due obiettivi piuttosto che conciliarli. Cito sempre l’esempio di VoestAlpine a Linz, in Austria: gli elettori hanno chiesto ai politici di coniugare ambiente e produzione ed è stato realizzato un impianto ecosostenibile vicino alla città. In Italia prevalgono incompetenza, demagogia e irresponsabilità, che stanno mettendo in ginocchio il Paese.



Uno dei nodi da sciogliere resta la questione dello scudo penale. Cosa dovrebbe fare il governo, che si è dimostrato ondivago, se non poco affidabile, visto che in un anno prima lo ha tolto, poi riammesso e infine di nuovo eliminato? Ha senso intervenire per una quarta volta, ripristinando uno scudo penale generalizzato?

Sembra un po’ il governo guidato dal maestro Miyagi del film “Karate Kid”: dai la cera, togli la cera… metti lo scudo penale, togli lo scudo penale… È il maestro Miyagi che sembra aver ispirato la linearità delle scelte del governo, perché il cambio delle norme non è solo un problema di merito, è un problema di affidabilità di un Paese. Un Paese che bandisce una gara di rilevanza internazionale con delle regole che poi cambia e ricambia due volte, è un Paese in cui non solo nessuno investe 1,8 miliardi di euro, ma nessuno viene a investire neanche 10 milioni. In realtà, sappiamo bene che sullo scudo penale il governo è diviso, il M5s non lo vuole e questo è un ulteriore problema, perché preferisce perdere 10.700 lavoratori piuttosto che ammettere di aver sbagliato.

ArcelorMittal chiede anche il via libera a 5mila esuberi, vista la crisi del comparto siderurgico. Il governo sembra orientato ad aprire a una Cig per 2.500 addetti. È una proposta su cui si può discutere?

No, è un disastro. Ci sono già migliaia di persone in amministrazione straordinaria, quelli non passati ad ArcelorMittal in cassa integrazione sono quasi 2mila, ci sono altri 1.700 lavoratori in cassa ordinaria messi da ArcelorMittal, a questi si aggiungerebbero i 5mila dell’area a caldo: significa 6.700 persone in cassa integrazione. Una mostruosità, inaccettabile e costosa. Tra l’altro, la chiusura dell’area a caldo non provoca 6.700 cassintegrati, perché solo con la parte a freddo, cioè la laminazione, l’azienda non sta in piedi. Chiudere l’area a caldo significa chiudere l’Ilva.

Quindi l’idea di una mini-Ilva, senza l’area a caldo, è da bocciare?

La mini-Ilva funzionerebbe solo come polo logistico-commerciale, ma senza alcuna possibilità di sussistenza economica, perché uno stabilimento molto grande funziona solo su volumi molto grandi.

Si parla di una possibile nazionalizzazione. È una strada percorribile?

È una follia. È il classico modo all’italiana per far pagare ai contribuenti l’irresponsabilità della politica e degli industriali privati. È inaccettabile, anche perché l’Ilva è già stata pubblica dal 1962 al 1995 e poi è tornata pubblica dal 2012 al 2018. Non abbiamo nessuna nostalgia dell’Ilva pubblica, che è stata la gestione più inquinante, più pericolosa in termini di infortuni per i lavoratori e assolutamente inefficace dal punto di vista industriale.

Quante chance concrete ha la possibilità che entri in campo una nuova cordata? Jindal si è già tirata fuori…

Sono solo fantasie. Jindal è impegnata a Piombino ed è bene che completi l’operazione di rilancio della ex Lucchini. Arvedi non ha le disponibilità finanziarie, è alle prese con la crisi dello stabilimento di Servola e con il passaggio generazionale al vertice. Del Vecchio con il fondo Delfin ha già fatto sapere che non è interessato. L’unica alternativa sarebbe Cassa depositi e prestiti, ma questo vorrebbe dire di nuovo reinserire denaro pubblico quando invece c’era la possibilità di far pagare i Mittal adesso e i Riva prima con i soldi sequestrati. Siccome il commissariamento è già costato quasi 4 miliardi di euro, nazionalizzare non mi sembra una grande idea.

I sindacati hanno proclamato uno sciopero: che ruolo possono e devono giocare in questa intricata vicenda?

Il problema più grande è che non abbiamo fatto un accordo sindacale dieci anni fa, bensì il 6 settembre 2018, firmandolo di fronte al ministro Di Maio e con il vertice di ArcelorMittal. Per noi quell’accordo sul piano industriale e ambientale è validissimo e noi siamo perché si riparta da lì.

Nel braccio di ferro tra governo e ArcelorMittal è finito anche il ruolo del Tribunale di Taranto, accusato di aver imposto prescrizioni difficili da rispettare nella loro tempistica. Che ne pensa?

La magistratura ha un ruolo fondamentale, ma non può sostituirsi al governo della politica industriale. Dal punto di vista dell’efficacia c’è qualche problema, perché, mentre sequestri e arresti all’inizio potevano essere anche giusti, non è accettabile che il dibattimento per il processo partito nel 2012 sia iniziato cinque anni dopo. Facendo così, gli unici a pagare sono i lavoratori e l’ambiente.

A proposito di tempi della giustizia, il governo è pronto ad avanzare il ricorso cautelare d’urgenza contro ArcelorMittal per non aver rispettato i patti. Aprire una dura e lunga partita legale con ArcelorMittal a cosa può portare?

Pensare che la battaglia giudiziaria sia l’unica carta da giocare significa che non si sono giocate o si sono giocate male tutte le altre. È sbagliato pensare che adesso i lavoratori, l’ambiente e i cittadini di Taranto possano sopportare i tempi di uno scontro giudiziario. Penso che un governo abbia altre urgenze: bisogna convocare subito un Consiglio dei ministri e introdurre lo scudo penale di portata generale. Chiunque dovesse arrivare a Taranto chiederà lo scudo penale, anche perché questa tutela nasce nel 2015 su richiesta dei commissari, non di ArcelorMittal che è arrivata tre anni dopo.

A questo punto come si può convincere ArcelorMittal a non abbandonare l’Ilva?

Credo sia molto difficile. È complicato per una società operare in un’azienda sotto sequestro chiedendogli di prendersi la responsabilità delle gestioni passate e facendo i conti con un ambiente ostile: il governatore della Puglia e alcuni sindaci locali sembrano assolutamente contenti del fatto che ArcelorMittal faccia le valigie. Ma qui vale il teorema di Tarzan: quando si lascia una liana, bisogna averne un’altra a portata di mano. E non proporre soluzioni illusorie o salti nel buio a cittadini e lavoratori.

Lei è pessimista sull’esito della vicenda Ilva?

ArcelorMittal ha le sue responsabilità: ha messo mano a una cassa integrazione sbagliata, doveva comunicare meglio con la città e doveva dare maggiore evidenza delle opere di ambientalizzazione già realizzate. Detto questo, però, se un’azienda arriva in una realtà già compromessa dal punto di vista ambientale e industriale e vede le istituzioni locali che sanno fare solo ricorsi, la magistratura solo sequestri, la situazione diventa complicata. Invece bisogna rendere l’impianto ecosostenibile, non chiuderlo. In Italia, però, la gran parte dei siti di interesse nazionale, cioè le aree pericolose per disastri ambientali, sono con aziende chiuse. È questa la follia italiana: l’ambientalizzazione si realizza con gli impianti in marcia, perché quando le aziende se ne vanno, è troppo tardi. Vedo aleggiare lo spettro di una Bagnoli 2.

(Marco Biscella)

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