“I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso”, recita l’articolo 107 della Costituzione. Possono però candidarsi in Parlamento o al Comune o alla Regione e a fine mandato, dopo aver legiferato, governato o amministrato, tornarsene sotto la toga. “Il Ministro della Giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare”, ma i casi di azioni disciplinari vincenti sono rarissimi, perché “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. E soprattutto perché (art.112) “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”.



Un ripassino utile, di questi tempi, quando leggendo la vicenda dell’Ilva di Taranto, ma anche in tandem quella del Mose, si constati quanto siano state e siano scandite dai tempi e dagli effetti delle iniziative giudiziarie. Perché quando i Padri Costituenti, nella loro saggezza, scrissero gli articoli della Carta che regolano il ruolo della magistratura e ne tutelano l’autonomia, l’Ilva di Taranto non era ancora nata. Sui 15 milioni di metri quadrati che oggi occupa la fabbrica c’era l’erba, avrebbe detto Celentano.



Oggi a indagare sul voltafaccia di Arcelor Mittal – seguito al voltafaccia dei Cinquestelle che hanno ottenuto la revoca dello scudo penale sulla gestione dell’Ilva – sono due Procure, Milano e Taranto, e si sente da Trani lo scalpitare della stessa Procura che ritenne di avere i titoli per mettere sotto inchiesta le agenzie di rating internazionali, banche di mezzo mondo, poi assolte “perché il fatto non sussiste”. In sostanza, i entrambi i casi – Ilva e Mose – la magistratura ha dettato le fasi della cronaca, con le sue iniziative. Giuste o sbagliate che fossero, è stata lei a muovere. Come può: cioè inibendo, sequestrando, indagando. Senza dover proporre soluzioni o doversi preoccupare del “dopo”. Guai, del resto: quando l’ex Procuratore capo di Milano Bruti Liberati decise di inoculare massicce dosi di “politica giudiziaria” nell’azione dei suoi uffici sull’Expo, ammorbidendo l’azione inquisitoria, giustamente ne nacque un putiferio e uno scontro memorabile davanti al Consiglio superiore della magistratura, risoltosi poi con un compromissorio pareggio.



Resta il fatto però che la magistratura determina i fatti e non deve gestirli. E chi dovrebbe gestirli, la politica, non lo fa: per clamorosa inadeguatezza, ma anche per paralisi da terrore giudiziario. Nei fatti, Tangentopoli ha rotto il coperchio della pentola che i costituenti avevano costruito scrivendo le norme sull’equilibrio dei poteri. Da una parte, a tutela delle toghe e della loro indipendenza, l’inamovibilità dei magistrati e l’obbligatorietà dell’azione penale. Dall’altra, l’immunità parlamentare.

Attraverso i decenni della Guerra Fredda prima e del terrorismo poi, a contrastare l’avanzata del compromesso storico, l’opposizione di sinistra, nel suo tendere a farsi governo, ha pervaso le file e lo spirito della magistratura che ha poi avuto in Tangentopoli la sua apoteosi. Il sostegno culturale e sociale che la sinistra ha dato a Mani Pulite – non tanto al pool di Milano ma al mood nazionale che lo avvolse – ha avuto risultati parziali, perché gli eredi del Pci non sono riusciti a restare immuni dalla retata. Ma ha spazzato via i vecchi partiti e, dando paradossalmente spazio a un personaggio come Silvio Berlusconi, ha trasferito la prima Repubblica nella seconda del presidenzialismo leaderista, ma, abbattendo nel frattempo la tutela della vecchia immunità parlamentare, ha metaforicamente evirato la classe politica che è diventata apparentemente più protagonista e sostanzialmente più debole.

Per cui oggi non si può dire che in Italia “comandano i giudici”, perché sarebbe come dire che in un’auto “comandano i freni”. Ma sicuramente in Italia i giudici ci sono e frenano, mentre il motore della politica è fuso. Questo vale nella vita quotidiana degli uffici pubblici, dove i tanti mascalzoni imperversano strafottenti come sempre mentre le tantissime persone perbene sono paralizzate dalla paura del “danno erariale” e non firmano più nemmeno gli atti dovuti; come vale nella macroscopicità delle vicende drammatiche dell’Ilva e – sia pure meno – del Mose, dove la magistratura fa, eccome, ciò che può, cioè interdire, bloccare, congelare; e non risponde – ed è ovvio che sia così – degli effetti, che la politica non sa gestire.

Lo scandalo Ilva esplode nel febbraio 2012, quando il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio, dopo la perizia epidemiologica disposta dalla giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, sequestra impianti e prodotti e arresta i Riva (a proposito, l’unico processo conclusosi a carico di uno dei Riva, Fabio, si è risolto con un’assoluzione). Di lì a poco, il commissario dell’Ilva Enrico Bondi s’inventa l’idea dello scudo penale, ossia una norma necessaria per dare un futuro all’impianto: cioè la “non punibilità dei gestori dello stabilimento per eventuali danni ambientali e alla salute causati dall’attività industriale per il periodo necessario alla realizzazione del piano ambientale” e purché essi applichino scrupolosamente il piano di risanamento approvato per legge, in quanto “migliore adempimento delle regole di prevenzione in materia ambientale, di tutela della salute di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro”.

Un compromesso, certo, tra diritto al lavoro e diritto alla salute. E quando i magistrati si sono appellati alla Corte Costituzionale contro questa norma hanno perso, in quanto gli ermellini lo hanno difeso: “Tutti gli interventi legislativi riguardanti lo stabilimento Ilva di Taranto… sono accomunati dalla medesima ratio, quella di realizzare un ragionevole bilanciamento tra una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti”. Finché i grillini hanno ottenuto la chiusura dello scudo al 6 settembre scorso, offrendo ad Arcelor Mittal il pretesto per mandare tutto all’aria.

Dunque: atti giudiziari esecutivi e inibenti, nessuna responsabilità gestionale – e fin qui siamo nella logica delle norme -, ma nessuna capacità di gestione da parte della politica, paralizzata e depotenziata dall’esecutività inibitrice della giustizia. Il quadro di un Paese impotente.

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