Nell’intesa sottoscritta nel mese di marzo tra i commissari dell’ex Ilva e il management di Arcelor Mittal per evitare il proseguo del contenzioso presso il Tribunale di Milano, l’appuntamento tra le parti del mese di maggio era finalizzato a dare concretezza alle linee guida di un  piano industriale ambizioso, che manteneva in piedi l’obiettivo originale degli  8 milioni di tonnellate di produzione annua, e all’impegno a offrire una soluzione occupazionale agli attuali dipendenti.



L’emergenza Covid-19 ha messo in soffitta qualsiasi ragionevole possibilità di poter scadenzare tempi di rilancio della produzione e dei piani di rientro dell’occupazione. Gli impianti di Taranto viaggiano a un ritmo di 7.000 tonnellate di produzione giornaliera, inferiore alle 3 milion annue, e  con una perdita di bilancio che si annuncia superiore al miliardo di euro. Per questi motivi, erano in molti a dare per scontata la formalizzazione del disimpegno di Arcelor Mittal, con il pagamento della penale di 500 milioni prevista nell’intesa inizialmente richiamata. Sensazione aggravata dalla decisione del Governo di negare l’accesso a un ulteriore credito di 400 milioni garantito dallo Stato avanzata dalla multinazionale franco-indiana.



L’incontro di ieri tra Governo, Arcelor Mittal e le organizzazioni sindacali ha smentito le attese pessimistiche. Le parti  hanno rinviato di dieci giorni  la scadenza per la definizione di un piano industriale aggiornato, offrendo rassicurazioni riguardo gli impegni precedentemente assunti. Il  Governo per  l’intenzione di intervenire nel capitale della nuova società e con programmi di spesa rivolti a risanare il contesto ambientale, e Arcelor Mittal per quella di rilevare la ex Ilva mantenendo attivi gli obiettivi finali dei programmi di investimento e di salvaguardia dell’occupazione.



Una scelta saggia, dato il clima di crescente tensione che serpeggia tra le maestranze della società  e nella comunità. Ma che non elimina affatto i dubbi sui reali propositi della multinazionale. La capogruppo ha già  accumulato perdite di 1,1 miliardi nel primo trimestre e i livelli di sovrapproduzione dell’acciaio nel mercato internazionale sono destinati ad aumentare imponendo dei tagli ai produttori. Questo non significa necessariamente che tale scelta debba coincidere con la disdetta degli impegni assunti verso l’ex Ilva, ma è lecito attendersi che, essendo nel frattempo aumentate le criticità  per la resa economica degli investimenti, già complicate in precedenza dalle condizioni ambientali e dagli interventi  della magistratura, saranno richiesti ulteriori supplementi di risorse da parte dello Stato e sacrifici aggiuntivi per i lavoratori.

Far quadrare il cerchio non sarà  affatto semplice. Le risorse disponibili per lo Stato si sono ridotte a fronte di una domanda di interventi, anche per l’ingresso nel capitale delle aziende in difficoltà, che è  destinata a crescere con l’aggravarsi della crisi.  Per le stesse ragioni i programmi espansivi delle altre aziende partecipate dallo Stato che hanno insediamenti a Taranto, e sui quali si contava per offrire una soluzione occupazionale ai potenziali esuberi dell’ex Ilva, dovranno essere ridimensionati.

Sarà necessario da parte di tutti uno sforzo inedito per offrire risposte sostenibili a una situazione che era già  drammatica in precedenza. A partire dal Governo chiamato a fare scelte prioritarie riguardo le attività  produttive, come l’acciaio, che sono strategiche per il Paese e verso le quali  concentrare le risorse disponibili. Lecito dubitare che in questa ottica i 3 miliardi stanziati per ricapitalizzare un’azienda fallimentare come Alitalia abbiano questi requisiti.

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