Pur considerando le specifiche caratteristiche delle attività produttive svolte, e dei settori di appartenenza, le analogie nelle vicende di Alitalia e di Ilva autorizzano le peggiori valutazioni sulla qualità delle nostre politiche industriali, sull’inefficacia del ruolo dello Stato, e per i costi assurdi messi in carico alla collettività. Mettiamo in fila i fatti e gli argomenti.



Per entrambe le società di proprietà dello Stato nel corso degli anni ’90, a valle di numerosi interventi rivolti a ripianare i debiti, fu avviato un processo di privatizzazione, concluso con la cessione dell’Ilva al gruppo privato della famiglia Riva e avviato per Alitalia con la sottoscrizione di un’intesa per una fusione alla pari tra con la Klm, finalizzata alla creazione della più grande compagnia di trasporto aereo europea. All’epoca entrambe le aziende pubbliche presidiavano quote di mercato di assoluto rilievo in settori considerati strategici per l’interesse nazionale e, come tali, da salvaguardare nell’ambito delle società privatizzate. Ma, come noto gli esiti di queste operazioni, con tempi hanno smentito tali aspettative.



L’intesa tra Klm e Alitalia, in conseguenza dei conflitti politici interni alla compagine governativa italiana sull’opportunità di trasferire da Fiumicino a Malpensa il principale hub aeroportuale italiano, venne disdettata dopo due anni dall’azienda olandese, per attivarne una alternativa con l’Air France. Per il vettore italiano è stato l’inizio una lunga agonia caratterizzata da riorganizzazioni interne, deficit gestionali e perdite di quote di mercato. Dopo il successivo fallimento dell’ipotesi di fusione con l’Air France, disponibile a rilevare i debiti e la gran parte del personale, con il concorso di un assurdo referendum promosso tra i lavoratori che bocciò tale scelta, vi sono state due consecutive gestioni fallimentari con la partecipazione, totale la prima, parziale la seconda, di imprenditori privati italiani e stranieri .



Per l’Ilva, il fallimento del gruppo Riva, generato da una iniziativa della magistratura, rivelatasi in parte infondata in sede di giudizio, ha riportato la proprietà nell’ambito statale. Quale sia l’esito del contenzioso aperto con la Arcelor Mittal, il gruppo imprenditoriale che si è aggiudicato la gara per l’acquisizione, sembra ormai scontata l’impossibilità di realizzare gli obiettivi del programma di ristrutturazione delle attività produttive, occupazionali e di risanamento ambientale del sito di Taranto, alle condizioni previste nel contratto di cessione sottoscritto nel settembre del 2018.

Le due società sono state gestite per molti anni da commissari nominati dallo Stato che si sono avvicendati nel gestire le fasi di transizione delle proprietà, comprese quelle in atto, con a disposizione risorse contingentate e inevitabilmente costretti ad attivare iniziative rivolte a razionalizzare i costi, anche riducendo le quote di mercato.

Coincidenza vuole che persino le cifre dei costi messi in carico allo Stato, per ripianamenti dei debiti assunti nelle fasi precedenti e successive alle privatizzazioni, anche considerando gli oneri per gli abbondanti ammortizzatori sociali erogati per i sostegni al reddito e i prepensionamenti e per il venir meno degli obblighi finanziari assunti da Arcelor Mittal, abbiano comportato oneri superiori ai 10 miliardi di euro per ognuna delle due aziende. Con rilevantissime perdite di fatturati, quote di mercato e di occupazione che hanno dimezzato per entrambe i valori e i numeri in essere prima della privatizzazione.

Eppure, nonostante queste evidenze, le lezioni della storia non hanno insegnato niente alla nostra classe dirigente politica. Nonostante i fallimenti e l’onerosità dei costi, le analisi, le proposte, i comportamenti rimangono stucchevolmente simili a quelli del ventennio ricordato. Aggravati da errori pacchiani, come nel caso dello sciagurato emendamento che ha cancellato l’immunità penale per i nuovi gestori piano di risanamento ambientale in un’area gravata dalle responsabilità provenienti dal passato. E dal pesante deficit di cultura industriale che pervade buona parte della classe dirigente politica e dei nuovi apparati amministrativi preposti per la gestione delle relazioni e degli interventi. Con il risultato di ritrovarsi con il cappello in mano, e con la promessa di consistenti iniezioni di nuovo denaro pubblico da destinare alla copertura dei debiti, per cercare di convincere i potenziali investitori privati di Alitalia e per far desistere Arcelor Mittal dai propositi di abbandono.

Come ricorda un vecchio detto, la storia che si ripete si trasforma in farsa. Se non altro perché, rispetto al passato, non ci sono più gli asset strategici da difendere, ma semplicemente delle quote di mercato che potrebbero eventualmente trovare compratori interessati a integrarle e razionalizzale nell’ambito delle loro strategie aziendali. Sulla base delle convenienze di mercato e a condizione che una parte consistente dei rischi venga messa in carico allo Stato finto imprenditore, costretto a dichiararsi disponibile a far partecipare al capitale, e alle perdite, la Cassa depositi e prestiti e altre aziende di sua proprietà.

Cosa poteva scaturire dall’ipotesi, fortunatamente destinata a fallire, di una nuova proprietà dell’Alitalia fondata su una quota di maggioranza pubblica sottoscritta dal ministero dell’Economia e dalle Ferrovie dello Stato, quest’ultima principale competitor della compagnia aerea per la tratta Roma-Milano, dalla sottoscrizione di una quota minoritaria di capitale da parte di Atlantia, sotto ricatto per la possibile revisione delle concessioni autostradali, e con il coinvolgimento di vettori internazionali, la Delta, o in alternativa la Lufthansa, semplicemente interessati a posizionarsi sul mercato italiano? E come potrebbe competere, in un mercato dell’acciaio caratterizzato da impianti di produzione eccedenti di 500 milioni di tonnellate rispetto all’acciaio attualmente venduto, un imprenditore impossibilitato a gestire gli impianti gravati da vincoli imposti dalla magistratura, e da costi di risanamento ambientale non più sostenibili?

La risposta è scontata: con pesanti iniezioni di risorse dello Stato italiano, qualsiasi soluzione venga adottata, con o senza imprenditori privati.

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