Se un leader del calibro di Nicola Zingaretti deve precisare un giorno si e l’altro pure che il Pd vuole governare bene e che non vuole precipitare verso le elezioni, significa che il rischio del crollo del fragile equilibrio che sorregge il governo Conte bis è più concreto di quanto non possa sembrare.

Ancor prima che deflagrasse la bomba Ilva la maggioranza appariva divisa su tutto. Incapace, persino sul piano comunicativo, di rivendicare il successo dell’andare verso la cancellazione di quelle clausole di salvaguardia che con l’aumento dell’Iva avrebbero sferrato una mazzata sull’economia italiana.



Niente: le polemiche sulle microtasse, sui nuovi balzelli sulla plastica, sulle auto aziendali e sulle bibite gassate e zuccherate si sono prese tutta la scena rispetto al risultato tutt’altro che scontato del mancato aumento Iva. Poco importa persino che su parecchi di questi balzelli il governo abbia innestato la retromarcia: il danno d’immagine è fatto, comunque vada a finire, e senza che l’opposizione guidata da Salvini abbia mosso un dito.



Il problema è che fra i quattro partiti che formano la coalizione di governo non c’è un punto che metta tutti d’accordo, salvo ovviamente la volontà di sbarrare la strada di Palazzo Chigi a Salvini. E in questo stato di fibrillazione permanente un ruolo cruciale ce l’ha la scissione capeggiata da Matteo Renzi. Italia viva come elemento che crea ulteriore instabilità. Visioni troppo diverse della politica e dello sviluppo per trovare una facile conciliazione.

Il caso Ilva ha colto governo e maggioranza di sorpresa, e potrebbe persino rivelarsi la goccia che fa traboccare il vaso. Per i 5 Stelle cedere sulla cancellazione dello scudo penale per Arcelor Mittal significherebbe perdere la faccia. Per Pd e renziani, accettare la chiusura dello stabilimento costituirebbe una sconfitta bruciante. Il dovere della sintesi spetta al premier Conte, ma i suoi margini di manovra sembrano estremamente ridotti, vista la volontà della società franco-indiana di procedere con le pratiche per disimpegnarsi dalla partita.



L’incontro di Palazzo Chigi è andato decisamente male. Conte e i suoi valutano ogni strada possibile, compresa quella di un decreto legge per concedere quell’immunità considerata irrinunciabile da Arcelor Mittal. Se ne è discusso in un Consiglio dei ministri durato tre ore e mezza, ma pare pesi il no fermo di un drappello di senatori pentastellati irriducibili. La consapevolezza è che, in ogni caso, il decreto non basterà, di fronte alla richiesta di rinegoziare tutto il contratto, inserendo 5mila esuberi su 10mila posti di lavoro. Una dichiarazione di guerra.

Dal Quirinale si osserva la situazione con preoccupazione crescente. L’attesa è che il premier sappia fare sintesi e proporre una via d’uscita plausibile. Dopo la batosta inferta all’esperimento giallorosso in Umbria il messaggio fatto trapelare dal Colle suona inquietante per la coalizione che sostiene Conte: se il patto fra Di Maio e Zingaretti dovesse saltare, altre alchimie non sarebbero consentite. E nemmeno il percorso per attuare la riduzione dei parlamentari sarebbe considerato ormai un alibi rispetto al ritorno al voto.

Certo, sino al varo della legge di bilancio si dovrebbe arrivare, in un modo o nell’altro. Poi tutto è possibile e molto dipenderà dall’esito del voto del 26 gennaio in Emilia-Romagna (e in Calabria). Sarà una specie di Armageddon. La volontà più volte espressa di andare avanti con questa maggioranza sino alla nomina del successore di Mattarella nel gennaio del 2022 andrebbe in frantumi. E non troverebbe al Quirinale che una tiepida difesa d’ufficio. In queste condizioni diventa arduo immaginare che il Conte bis possa reggere altri 26 mesi, un’enormità. E se si dovesse aprire a febbraio una crisi per cambiare premier si saprebbe come si comincia, ma non come si finisce.

Il punto debole della maggioranza si dimostra il Movimento 5 Stelle ogni giorno di più. Lo sfarinamento della forza politica tuttora di maggioranza relativa in Parlamento rimane un’ipotesi da non escludere. Le crepe sono visibili a tutti. Sarà arduo per Di Maio dimostrare il contrario. Ma la prospettiva di una legislatura che arrivi sino al 2022 passa esattamente da qui.

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