Nella presentazione del suo programma in Parlamento per ottenervi la fiducia, Mario Draghi non ha dedicato uno specifico capitolo alla politica industriale e ai numerosi dossier – dall’ex Alitalia all’Ilva, solo per citarne due – che da tempo sono sul tavolo dell’esecutivo, ma ha enunciato alcuni indirizzi di politica economica che potrebbero considerarsi, sia pure in termini ancora generali, le linee guida per impostare soluzioni operative di politica industriale.
Infatti, in uno dei passi salienti del suo programma, il Presidente ha affermato: “Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo: digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori, biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra sono diverse facce di un sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno le azioni umane”.
In questi riferimenti pertanto, sia a pure a maglie molto larghe, potrebbero individuarsi alcuni obiettivi cui il nuovo Governo dovrebbe puntare, misurandosi con le problematiche settoriali e aziendali più complesse ora sul tappeto in materia di politica industriale: e cioè processi e produzioni ecosostenibili che contribuiscano a ridurre il riscaldamento globale e l’effetto serra salvaguardando la salute, la diffusione della digitalizzazione con il rafforzamento dei programmi di industria 4.0, la crescente generazione di energia da fonti rinnovabili, l’incremento dell’impiego di tecnologie aerospaziali per difendere gli ecosistemi.
E a rafforzare quanto riportato in precedenza, Draghi ha affermato: “La risposta della politica economica al cambiamento climatico e alla pandemia dovrà essere una combinazione di politiche strutturali che facilitino l’innovazione, di politiche finanziarie che facilitino l’accesso delle imprese capaci di crescere al capitale e al credito, e di politiche monetarie e fiscali espansive che agevolino gli investimenti e creino domanda per le nuove attività sostenibili che sono state create”.
Pertanto politiche strutturali, quelle immaginate dal Premier, in grado di facilitare l’innovazione e supportate da politiche finanziarie, monetarie e fiscali utili a favorire gli investimenti delle aziende “capaci di crescere” – una discriminante precisa, questa sottolineata dal Presidente – idonei a creare domanda per le nuove attività sostenibili che vengono create.
Circa poi il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi, essi – dice Draghi – “dovranno essere valutati con attenzione”. Egli cioè non li esclude, ma la sua preferenza sembra andare a uno “Stato che utilizza le leve della spesa per ricerca e sviluppo, per istruzione e formazione”, e a uno Stato che “regolamenta, incentiva, fissa le imposte”, ma che – sembra dire implicitamente Draghi – non gestisce, o lo fa il meno possibile. E tale suo orientamento sarebbe in linea con il ruolo da lui assolto nel 1992-1993 quando, in ruoli apicali al ministero del Tesoro, guidò le grandi privatizzazioni delle maggiori aziende pubbliche italiane, secondo quanto stabilito dai Governi dell’epoca.
Ora, passare da questi enunciati generali, e comunque molto nitidi, all’esame approfondito e sperabilmente alla soluzione di specifici casi di crisi aziendali estremamente complesse non sarà facile, e un primo banco di prova può essere considerato proprio quello dell’ex Ilva, i cui rami d’azienda sono in locazione propedeutica all’acquisto da parte di AmInvestco Italy, controllata dalla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal, e nella quale – secondo quanto stabilito dal Governo Conte-2 – dovrebbe entrare al 50% con 400 milioni Invitalia, che l’anno prossimo salirebbe al 60%. Lo Stato, così, rientrerebbe nella compagine sociale dell’Ilva, dopo la sua privatizzazione avvenuta nella primavera del 1995.
Sarebbe questa una palese smentita di quanto affermato da Draghi circa il ruolo dello Stato più regolatore che gestore? A nostro avviso no, anche perché – con riferimento al più grande stabilimento dell’Ilva, che è quello di Taranto – l’intervento statale deve favorire e anzi accelerare l’ambientalizzazione della fabbrica, riducendone al massimo emissioni nocive e danni all’ambiente e alla salute di operai e cittadini. In questo caso, il ruolo dello Stato dunque sarebbe proprio quello – enunciato sia pure in termini generali – di difendere l’ecosistema con l’impiego di tecnologie innovative che creino domanda per comparti impiantistici e in grado di migliorare strutturalmente la produzione di acciaio abbattendone la nocività. Ed è proprio quello che si propongono la Danieli, la Saipem e la Leonardo che hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per mettere a punto nuove tecnologie di processo che consentano agli impianti siderurgici di ridurne drasticamente le emissioni nocive.
I tempi tecnici di messa a punto e di entrata in esercizio di tali tecnologie non sono purtroppo immediati, e poi non è affatto sicuro, ancorché auspicabile, che esse e non altre, invece, sia pure con eguali finalità – come ad esempio quelle allo studio congiunto di Tenaris, Snam ed Edison – vengano impiegate nell’acciaieria ionica; a deciderlo saranno le regole del mercato, ragion per cui questo rende necessario a Taranto ancora per qualche tempo una convivenza di produzione di 2 altoforni ammodernati con quella di un forno elettrico da impiantarsi, e nel quale impiegare preridotto di ferro da prodursi in un sito attiguo, anche al fine di raggiungere nel 2025 gli 8 milioni di tonnellate di out-put per difendere l’occupazione attuale di 8.206 addetti diretti, cui vanno aggiunti gli attuali occupati negli altri stabilimenti di Genova e Novi Ligure. Ma è anche vero che bisognerà stringere i tempi per la messa a punto e l’impiego a Taranto di nuove tecnologie di processo, perché la sfida da affrontare e vincere in riva allo Ionio è quella di produrre a costi competitivi acciaio “green” per conservare all’Italia il ruolo di grande potenza industriale di rango mondiale.
Naturalmente, facendo in modo nel frattempo a livello governativo e parlamentare che vengano superate le deliberazioni di organi di giustizia amministrativa che vorrebbero spegnere l’area a caldo della fabbrica tarantina, con danni pesanti – come sottolineato dalla Confindustria e dalla Federacciai, e come temuto dai sindacati – per l’intera industria meccanica nazionale e la sua occupazione.
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