L’incontro tra tra Governo, azienda e sindacati è stato deludente. Pesa negativamente l’improvvida  scelta di rimuovere le garanzie di immunità penale, per gli effetti dell’inquinamento ambientale prodotti dagli impianti in essere, per i responsabili del gruppo imprenditoriale, la Arcelor Mittal, che si accingono a subentrare nella gestione dell’Ilva di Taranto.



I termini della questione sono chiari. Nel breve periodo, l’incremento della produzione di acciaio  per  garantire l’economicità della attività produttiva, e le risorse da dedicare alla modernizzazione degli impianti e alla bonifica ambientale, può comportare un aumento delle emissioni delle componenti tossiche messe sotto accusa dalle organizzazioni ambientaliste e dalla magistratura. Pertanto, se si decide di proseguire la produzione dell’acciaio diventa decisivo assicurare da parte di tutti gli attori in causa – l’azienda, le istituzioni, i sindacati – la tenuta del compromesso raggiunto tra obiettivi di recupero dell’efficienza e produttività, e riduzione progressiva degli impatti ambientali.



Arcelor Mittal può, e deve accettare, di essere monitorata per l’attuazione degli impegni sottoscritti, che prevedono il raggiungimento degli obiettivi produttivo-occupazionali e ambientali nel 2023. Non  perseguita per le conseguenze delle scelte operate dai precedenti imprenditori. Questo del resto dicono gli accordi sottoscritti, nonostante le arrampicate sui vetri messe in atto dal ministro dello Sviluppo per giustificare una scelta palesemente rivolta a dare pretesti alla magistratura e alle associazioni ambientaliste. È questa in buona sostanza la richiesta del nuovo gruppo imprenditoriale che, da parte sua, sottolinea la rilevanza degli impegni finanziari assunti anche per il risanamento ambientale.



Sull’altro fronte pesa la perdurante dipendenza dell’area tarantina dalla produzione di acciaio. Più di 20mila famiglie, di lavoratori Ilva e delle imprese dell’indotto, dipendono dal destino di queste attività. La chiusura, anche se assistita da sostegni al reddito, produrrebbe un tracollo dell’economia locale. Tutti i propositi di avviare diversificazioni delle produzioni e pianificare bonifiche si sono rivelati fantasiosi, privi di consistenza imprenditoriale ed economicamente insostenibili per le istituzioni.

Ma purtroppo questa evidenza, che sta alla base dei compromessi di volta in volta raggiunti, non viene accettata in quanto tale. Più che compromessi sembrano tregue, intese parziali che nascondono trappole da utilizzare al momento opportuno per rinfocolare i conflitti. Come successo, per l’appunto, nel caso del superamento della clausola sull’immunità sinora garantita per i commissari nominati dallo Stato.

Pesa la forte diversificazione degli interessi che contrappone le associazioni ambientaliste a quelle sindacali. Pesa l’incertezza sui comportamenti della magistratura, che in diverse occasioni hanno rischiato di compromettere l’attività produttiva. E che, guarda caso, ha effettuato l’ennesima sortita per disporre lo spegnimento di alcuni impianti in coincidenza dell’incontro tra il Governo, l’azienda e i sindacati. Pesa la scarsa coesione tra le istituzioni locali e nazionali, complicata dall’equivoca gestione di un ministro dello Sviluppo, espressione di un partito-movimento che ha costruito il consenso locale sulla promessa di chiudere l’Ilva, ma  che è costretto a fare i conti con un impatto occupazionale e produttivo che, da solo, vale un punto del Prodotto interno lordo italiano.

L’incertezza perenne rischia di essere il peggior nemico per il futuro dell’Ilva. Uno scenario che può compromettere il raggiungimento degli obiettivi finali, per quelli produttivi come per quelli ambientali, con tanti colpevoli e nessun colpevole. E intanto cominciano a pagarla i 1.400 lavoratori messi in cassa integrazione.

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