Il Governo ha presentato alle organizzazioni sindacali le sue proposte per il rilancio dell’ex Ilva di Taranto. Una sorta di linee guida da attuare nell’arco di cinque anni che prevedono la sostituzione delle fonti energetiche che alimentano gli altiforni, un rifacimento degli stessi integrandoli con uno o più forni a conduzione elettrica, e il proseguo delle bonifiche ambientali. Con l’obiettivo finale di portare la produzione, e mantenere gli occupati, sui livelli previsti nelle intese sottoscritte nel settembre 2018 dal ministro dello Sviluppo Di Maio con la Arcelor Mittal e i sindacati. Il tutto corroborato da un massiccio concorso di risorse pubbliche da parte dello Stato, da aziende e da  altri enti pubblici, tutte ancora da definire, per mantenere quote di capitale nella nuova società, per incentivare la riconversione degli impianti e delle fonti energetiche, per sovvenzionare la bonifica ambientale, per finanziare l’uso della cassa integrazione nella fase di transizione, per sostenere programmi nel territorio tarantino pilotati dalle aziende partecipate dallo stato.



Il ministro Patuanelli lo definisce “il piano industriale del Governo”, valido anche nella condizione di un’eventuale rinuncia della multinazionale indiana che rimane comunque il primo interlocutore del Governo. Anche se, a prima vista, la proposta sembra un assemblaggio di desideri, la combinazione delle aspettative delle rappresentanze dei lavoratori con quelle delle associazioni ambientaliste, e di una manifestazione di potenza dello Stato non confortata dai precedenti storici e dalle attuali gestioni commissariali.



Un vero peccato che i piani industriali li debbano fare gli imprenditori. Con tanto di calcoli volti a conciliare le esigenze degli acquirenti del prodotto con quelle della redditività degli investimenti e la compatibilità dei costi ambientali. Allo stato attuale, non è dato sapere quale sia l’opinione della Arcelor Mittal riguardo le proposte in questione, e che si presume siano state sottoposte in precedenza all’azienda. Di certo sono assai lontane da quelle che la multinazionale aveva messo in campo per limitare i danni di un potenziale contenzioso legato alla disdetta degli accordi, ma che ipotizzavano un forte ridimensionamento dei volumi di produzione e il dimezzamento degli organici.



Basteranno le risorse pubbliche, e l’assunzione del rischio da parte dello Stato, a far cambiare idea? Lecito dubitarlo. Il punto debole dell’impostazione del Governo, incertezza sulle risorse a parte, rimane la fase di gestione della transizione. Quella che dovrebbe assicurare la continuità della produzione, per la finalità di mantenere il mercato e generare risorse per gli investimenti. Un’esigenza che continua a essere messa in discussione non solo dalle associazioni ambientaliste e da una parte rilevante della maggioranza parlamentare che sostiene il Governo, ma anche dai ripetuti interventi della magistratura. Che con una puntualità imbarazzante, e non è la prima volta, ha sostanzialmente disposto la chiusura di un altoforno per motivi di sicurezza, e che potrebbe assumere una decisione analoga per altri due nelle medesime condizioni.

Le organizzazioni sindacali hanno apprezzato la decisione del Governo di difendere gli obiettivi occupazionali contenuti nell’intesa del settembre 2018, ma temono seriamente che le ambiguità contenute nella proposta dell’Esecutivo, compresa l’esigenza ormai palese di reintrodurre lo scudo penale, facciano precipitare la situazione costringendoli di fatto a dover gestire la carenza di produzione con la messa in cassa integrazione di migliaia di dipendenti per tempi prolungati. Una condizione che renderebbe assai difficile la ripresa considerando che gli attuali clienti dovrebbero nel frattempo riposizionare i contratti di fornitura.

Un “piccolo” dettaglio, purtroppo trascurato che mette in evidenza quanto sia velleitaria la possibilità di nazionalizzare la proprietà dell’azienda in assenza di strategie di mercato internazionali, e di eventuali compensazioni che solo un produttore mondiale può assicurare. Il tentativo di aggirare l’ostacolo da parte del Governo non avrà vita lunga. Nel breve periodo si deve già dare corso a un massiccio intervento della cassa integrazione,  non solo per esigenze di mercato, ma per la stessa impossibilità di gestire gli impianti. Sul piano generale l’unica carta in mano per far cambiare idea ad Arcelor Mittal è fondata sull’entità delle risorse pubbliche, e sui rischi, che lo Stato è disponibile a condividere. Sempre ammesso che queste risorse le abbia davvero e che ci sia una maggioranza parlamentare disponibile ad assumerne le conseguenze, scudo penale compreso.

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