ILVA DI TARANTO… “Hai voluto la bicicletta? ora pedala…”. Così mi diceva il mio babbo e così dico io ai signori che hanno voluto e gestito l’ingresso del capitale pubblico in “Arcelor Mittal Italia spa” (AMI).

Per dare conto di questo strano incipit, occorre una premessa: non conta un fico secco il fatto che la partecipazione sia paritetica (ma già ora si sa che lo Stato diventerà maggioranza assoluta) e che, quindi, le responsabilità vanno divise al 50%. Uno dei due soci non è paritetico, ma è lo Stato italiano al quale tutti guarderanno da adesso in poi. Nessuno ha obbligato lo Stato a intervenire in questo modo: ha voluto questa bicicletta ed ora è lui che deve pedalare, non certo il socio Mittal che può permettersi il “lusso” di stare a guardare, tanto poi se le cose vanno male pagheremo noi e lui avrà anche la possibilità di salutarci e andarsene senza pagare dazio (oltre quello già pagato con le perdite degli ultimi 18 mesi).



I sindacati, le istituzioni dei territori, ma anche i creditori che adesso si rivolgono al Signor Mittal, da oggi si rivolgeranno al Governo e ai suoi rappresentanti nel CdA e nelle strutture operative (ammesso che ci si preoccupi di mettere qualcuno). Paradossalmente il fatto che l’Amministratore delegato (ossia il vertice operativo) sia nominato da Mittal è del tutto indifferente. Ciò non vuol dire che un AD vale l’altro e di questo ce ne siamo accorti negli ultimi mesi di gestione degli stabilimenti; una gestione tutt’altro che adeguata. La relativa indifferenza di chi sia l’AD deriva dal fatto che ogni problema tra azienda e i tanti stakeholder che ruotano attorno ad AMI, avrà come interlocutore fondamentale l’azionista meno forte, ma più facile da affrontare.



Perché questa affermazione solo apparentemente contraddittoria? Una risposta potrebbe essere trovata nella cultura “statalista” predominante in Italia: tutti a protestare contro lo Stato, ma pronti a invocarlo ogni volta che sorge un problema. Ma non basta questa risposta perché nel caso di ILVA ci sono alle spalle oltre 8 anni molto complessi e confusi, durante i quali lo Stato, nelle sue diverse configurazioni, è stato il soggetto fondamentale che nel primo periodo ha mantenuto viva l’azienda e che poi ha provveduto a metterla in Amministrazione Straordinaria, gestendo successivamente in modo diretto (compito che i Commissari hanno felicemente delegato) la cessione ad Arcelor Mittal, senza dimenticare tutti gli interventi di supporto dalla CIGS, al Piano Taranto, agli esodi incentivati e via cantando. Una presenza determinante che oggi si materializza con il nuovo ingresso nel capitale. È quindi inevitabile che i rappresentanti di Invitalia (lo Stato) siano diventati gli interlocutori di chiunque abbia un problema derivato da AMI-ILVA.



Da questa scontata considerazione derivano alcune conseguenze che riguardano la governance, le persone che si mettono in campo e il loro grado di autonomia/competenza: questioni che vale la pena esaminare per comprendere la rilevanza.

Per quanto riguarda la governance ho già introdotto alcuni temi (quelli di natura commerciale soprattutto) nel mio precedente intervento. Ne aggiungo altri che mi sembrano importanti. Il CdA è paritetico (3+3) almeno fino a quando fra due anni lo Stato non prenderà la maggioranza; ma nel frattempo come si dirimeranno le probabili controversie su temi importanti che dovessero contrapporre i 3 pubblici ai 3 privati? Non si dica che si farà ricorso a un terzo arbitro, perché questo è il modo più veloce per affondare l’Azienda. Lo Stato italiano potrebbe esercitare la golden share, visto che ha sostenuto che il suo intervento è necessario perché l’acciaio è strategico. Lo farà? E se la risposta è affermativa, come si comporterà Mittal? Aggiungo: come si regolerà la presenza in un mercato competitivo come quello dei laminati piani?

In Italia operano più competitor nei mercati dove AMI è presente e fino a quando la proprietà era privata il problema era abbastanza relativo per molte ragioni (tra l’altro i competitor erano molto più piccoli). Non è accettabile la risposta che “the business is business my beauty” per la semplice ragione che lo Stato non può avere figli e figliastri (soprattutto quando questi ultimi si chiamano Marcegaglia, Arvedi, Magona, ecc.). Potrei aggiungere altre considerazioni, ma queste sono già sufficienti per introdurre un problema di governance interna e di mercato che lo Stato non può trascurare. Mi auguro che tutto questo e molto altro sia stato affrontato dallo stuolo di consulenti messi in campo nei mesi tra marzo e il 10 dicembre di questo anno. Finora non ci sono risposte evidenti.

La seconda questione, assai delicata, riguarda le persone e le competenze messe in gioco. Non mi riferisco solo ai due ruoli apicali (CEO e Chairman) anche se è ovvio che non è indifferente da chi siano ricoperti, soprattutto se venissero confermate persone che non hanno brillato per adeguatezza professionale e il cui “stile” manageriale, certamente “originale”, è forse poco consono a gestire la maggiore impresa siderurgica italiana. Mi riferisco, invece, alla struttura manageriale. Negli ultimi hanno si è assistito a un turnover davvero eccessivo, dovuto a ragioni contingenti (l’uscita dei Riva) e a scelte molto gravi compiute da quando Mittal ha iniziato a gestire l’azienda. Le motivazioni note di questo turnover sono stupefacenti: inadeguatezza, disonestà, incoerenza con gli obiettivi aziendali. Può darsi che siano vere e io comunque non ho elementi per per contestarle; resta il fatto che il management è stato sottoposto a stress molto pesanti e non c’è resilienza che tenga per recuperare la coesione necessaria alla gestione di una realtà tanto complessa.

Ricostruire le linee di comando è un compito urgente e ancora una volta la responsabilità di tale operazione se la dovrà prendere tutta quanta il socio pubblico. A lui si rivolgeranno i sindacati quando inizierà il confronto non solo sugli aspetti occupazionali e dovrà essere in grado di condurre un negoziato che sarà molto diverso da quello che ha portato all’accordo del 6 settembre 2018. Ancora a lui si rivolgeranno le istituzioni che chiederanno garanzie sugli investimenti green e sulle politiche di sviluppo territoriale. Sarà necessario disporre di adeguate competenze che la gestione Mittal non ha reso disponibili. Ci si sta preoccupando? Speriamo di sì, ma a oggi non ci sono evidenze.

Gli argomenti che ho proposto sono poco presenti nel dibattito che ha preceduto e seguito l’ingresso di Invitalia in AMI il 10 dicembre scorso: molti hanno scritto a proposito e a sproposito sulla nuova “IRI”, sulla decarbonizzazione o sulla chiusura dell’area a caldo, ecc. Qui ho parlato di governance e di gestione perché, ora che la frittata è fatta, non si può ritornare al punto di partenza; le uova non si ricompongono. Si deve almeno evitare che tutto sia buttato nella spazzatura come vorrebbero sia quelli che invocano la chiusura dell’area a caldo, sia quelli che inventano piani fantasmagorici da realizzare nei prossimi cinque anni, ben sapendo che sono irrealizzabili.

Questo significa mettersi al lavoro con grande urgenza, impegno, competenza e professionalità per dare ad AMI quella governance e quella managerialità che potrebbero salvaguardare nel lungo periodo la vita di questa azienda.

La domanda finale, per completare quella iniziale, è: “Ma sanno andare in bicicletta coloro che l’hanno voluta?”. Lascio la risposta ai lettori. La mia personale è che non lo sanno fare, ma spero imparino in fretta per il bene di tutti e, soprattutto, che Dio li aiuti.

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