Gestire un’azienda che ha grossi problemi e rischia di non avere un futuro vuole dire convivere quotidianamente con l’ansia di non riuscire a pagare gli stipendi, di non avere le risorse per comprare le materie prime, di non farcela a saldare le fatture dell’indotto. Ogni giorno è peggio del precedente e l’unica speranza alla quale ci si aggrappa è una svolta del mercato che porti a una crescita importante e rapida dei volumi e dei prezzi di vendita. Talvolta questo accade, ma spesso purtroppo no.



Acciaierie d’Italia ha bruciato anche questa speranza come ci ha spiegato con semplicità tanto esemplare quanto evidente il Sole 24 Ore nell’articolo dal titolo “Acciaio: big europei ai massimi, ex Ilva con il freno a mano tirato”, uscito il 16 febbraio scorso.

Tutte le aziende europee che fanno gli stessi prodotti di Taranto, Novi Ligure e Cornigliano, nel 2021 hanno consuntivato ricavi e utili da record grazie a una congiuntura eccezionale e forse irripetibile. Così è stato innanzitutto per Arcelor Mittal – ancora azionista di maggioranza di Acciaierie d’Italia anche se deconsolidata – che ha riportato un utile netto vicino ai 15 miliardi di dollari. Ottimi risultati hanno fatto anche la svedese SSAB e la tedesca ThyssenKrupp che da poco ha ceduto AST al gruppo Arvedi, pure lui con risultati molto positivi alla pari di Marcegaglia, Valbruna, ecc.



E Acciaierie d’Italia? Sui risultati 2021 di ufficiale non si sa nulla, ma è lecito immaginare che se fossero stati positivi, o anche solo leggermente negativi, sarebbero stati sicuramente esibiti con orgoglio. Alcuni articoli usciti su diversi giornali, e a oggi non smentiti, ci fanno però sapere che l’azienda ha un altissimo scaduto con i fornitori (si parla di 800 milioni) figlio di una situazione finanziaria molto difficile. È stato scritto – e anche in questo caso non smentito – che lavora per cassa, ovvero produce in funzione delle materie prime che riesce a comperare con i soldi ricevuti dai clienti perché nessuno fa credito. Nelle aziende afflitte da questo tipo di problemi le conseguenze commerciali sono il più delle volte disastrose: oltre ad abbassare i prezzi di vendita per fatturare il più possibile si fanno sconti molto alti per cercare di avere pagamenti in anticipo rispetto alle normali prassi commerciali. Ma lavorare per cassa è quasi impossibile per chi produce acciaio da altoforno la cui redditività si ottimizza solo lavorando su 21 turni (7 giorni per 24 ore/giorno). L’altoforno numero 4 si era fermato, poi è ripartito, poi si è rifermato e dopo significativi interventi doveva ritornare in marcia a fine gennaio, no, a fine febbraio… aspettiamo fiduciosi. Così Taranto continua a marciare con due altoforni soltanto ma a marcia ridotta perché, si sussurra, non ci sono i soldi per comprare le materie prime. È vero?



Crediamo che nessuno possa invidiare i massimi vertici di Acciaierie d’Italia. La speranza che ritorni il mercato a sistemare le cose è quasi certamente svanita; il mercato (e che mercato!) è passato nel 2021 e loro non sono riusciti a trarne beneficio. È legittimo il dubbio che le fortune dei competitor siano anche figlie di questa brutta situazione. Non si dimentichi che Mittal, ancora socio di maggioranza nella ex Ilva, ha voluto rendere autonoma l’azienda italiana anche e soprattutto sul piano commerciale, così da essere autonomo nel mercato e quindi fare concorrenza a se stesso con le conseguenze che stiamo registrando a Taranto.

Ancora una volta, però, su tutta questa situazione è calata una cappa di silenzio rotta solo dalle testate locali che quasi quotidianamente raccontano dei problemi di ordinario inquinamento, di processi e condanne. Poco o niente sullo stato di salute dell’azienda salvo qualche sporadica dichiarazione di cauto ottimismo mai suffragato da elementi concreti. È comprensibile che non sapendo cosa dire i vertici tacciano. Ma il sindacato che fa? Accetta passivamente e in silenzio quasi fosse intimamente rassegnato al peggio, salvo minacciare ogni tanto azioni non ben definite che comunque non avvengono mai.

Negli ultimi mesi quel poco che si è detto – e che è stato oggetto di uno scarso confronto per mancanza di pezze d’appoggio – ha riguardato il fantomatico piano di decarbonizzazione e l’attenzione si è concentrata sulla sua durata, 10 anni, e marginalmente sulle sue eventuali conseguenze in termini occupazionali. Ma su cosa stia succedendo in termini di gestione poco o nulla, trascurando così il dettaglio che se l’azienda collassa il futuro cessa di esistere e se non c’è una prospettiva chiara e condivisa, le ipotesi di piano vengono percepite come velleitarie e allora sarà il mercato, per definizione spietato, che prenderà le sue decisioni.

È quindi necessario e urgente che quanto prima si faccia una grande operazione di trasparenza e verità sia dentro la compagine proprietaria (che agisce soprattutto con denari pubblici), sia nei confronti dei maggiori stakeholder. Oggi l’argomento che la pubblicità dei dati e dei problemi potrebbe danneggiare commercialmente Acciaierie d’Italia non regge più. Dopo le occasioni perse nel 2021 tutti sanno quanto l’azienda sia fragile ed esposta a grandissimi rischi. Ammettere le difficoltà e tracciare un programma di ripresa credibile è l’unica via per riguadagnare non solo la fiducia del mercato, ma anche di chi lavora in azienda e che da troppi anni non sa dove si sta andando.

Per spiegarci meglio concludiamo con un esempio del recente passato che potrebbe essere profetico. Il più grande processo di decarbonizzazione degli ultimi anni in Italia ha visto come protagonista lo stabilimento di Piombino che fino al 2014 produceva 1,3 milioni di prodotti lunghi (vergella, barre e rotaie) da ciclo integrale. Con la fermata dell’altoforno e delle cocherie, dettata da ragioni economiche e non ambientali, le proprietà che si sono succedute non sono state in grado di prendere una traiettoria strategica chiara e come ovvia conseguenza, salvo che per le rotaie, altri imprenditori del nord hanno investito e si sono sostituiti producendo gli stessi prodotti con i loro forni elettrici, in quantità maggiore e con utili importanti. Il mercato, giustamente, non aspetta; lo sa molto bene Mr. Mittal.

Ci si consenta alla fine una licenza poetica rivolta a Invitalia che da maggio dovrebbe acquisire il controllo di Acciaierie d’Italia: “Ei fu. siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore”. Non vorremmo che anche per Taranto valessero le parole rivolte dal Manzoni a Napoleone Bonaparte.

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