Lo spostamento del contenzioso relativo alla legittimità  del recesso di Arcelor Mittal dal contratto di acquisto dell’Ilva sancisce la fine di qualsiasi ipotesi di rilancio del sito produttivo di Taranto. Se la decisione di abbandonare da parte della multinazionale verrà confermata, qualsiasi proposito di ripristinare le condizioni per la continuità  dei programmi di investimento risulteranno velleitarie. Ma le stesse ipotesi  messe in campo dal Governo per favorire un improbabile  ripensamento di Arcelor Mittal  comporterebbero comunque un ridimensionamento sostanzioso della produzione e dell’occupazione, anche se provvisoriamente assorbiti da un consistente utilizzo di ammortizzatori sociali.



Sui mass media proliferano le analisi tecnico-economiche che confortano le più  pessimistiche previsioni. Accompagnate, purtroppo, dall’immagine compromessa di un Paese incapace di offrire certezze agli investitori. Ma c’è un altro fattore, ancora più decisivo, che fa propendere verso ipotesi più drastiche, sino all’impossibilità di garantire anche un’attività ridotta della produzione siderurgica, che è rappresentato dall’evidente frattura che si è prodotta tra la maggioranza della popolazione tarantina e i destini dell’azienda.mE che, a mio modesto avviso, coinvolge anche una parte consistente delle maestranze della stessa Ilva.



Questo è il prodotto finale di vicende che vengono da lontano, dal fallimento della prospettiva del raddoppio delle potenzialità produttive del quarto polo siderurgico italiano, dalle iniziative rivolte a razionalizzare la produzione siderurgica delle aziende pubbliche in vista della privatizzazione della ex Italsider, che si è concretizzata alla metà  degli anni ’90 dello scorso secolo.

Vale la pena ricostruirle sinteticamente queste vicende, anche con il conforto dei numeri, per comprendere l’irreversibilità  del processo in corso. La scelta di sviluppare all’inizio degli anni ’60 il quarto centro siderurgico a Taranto, oltre alle favorevoli condizioni logistiche, fu orientata anche dall’esigenza di compensare in quel territorio il declino post-bellico delle produzioni della Marina militare, i cantieri navali, l’Arsenale, la Franco Tosi, con la perdita di 7mila posti di lavoro diretti, su una popolazione di circa 200mila abitanti.



Una scelta destinata a rivoluzionare i destini della città  e della provincia tarantina, non solo per la consistenza dell’occupazione generata dall’Italsider, giunta all’apice di 21.800 dipendenti diretti e di altrettanti occupati stimati nell’indotto, ma anche per l’effetto di trascinamento che essa ha prodotto per l’allocazione nel territorio degli investimenti di altre aziende pubbliche (Eni, Agip, Cementir, Italimpianti, Icrot, Fincantieri, Ansaldo, ecc.).

Lo sviluppo della città, con un incremento del 50% della popolazione, l’evoluzione del reddito e dell’occupazione, le stesse aspettative intergenerazionali con il subentro dei figli ai padri pensionandi, persino le dinamiche legate al consenso sociale e politico e il destino stesso della comunità si intersecano con quello delle aziende pubbliche. Le crepe di questo modello di sviluppo  si cominciano a intravedere in coincidenza col drastico ridimensionamento del piano di potenziamento della siderurgia pubblica italiana ipotizzato alla fine degli anni ’70, che caratterizzerà sino agli anni ’90 la ristrutturazione dell’Italsider, che arriverà ad accumulare perdite nell’ordine di 4.500 miliardi delle vecchie lire. Ristrutturazione che comporterà una drastica riduzione del personale diretto e dell’indotto, dell’occupazione nell’azienda confluita nella nuova Ilva sino alle 12.600 unità, accompagnata da un massiccio utilizzo degli ammortizzatori sociali e dei prepensionamenti. Un processo affiancato dalle ristrutturazioni delle aziende pubbliche nel territorio con analoghe riduzioni di personale.

La privatizzazione e il passaggio della proprietà della nuova Ilva, nata dalle ceneri dell’Italsider, al gruppo Riva, segna la definitiva rottura con il passato. Una rottura che produrrà effetti anche sul blocco sociale e politico che aveva assicurato la trasformazione precedente, un drastico mutamento della qualità  delle relazioni sindacali interne, con una riduzione massiccia degli iscritti alle organizzazioni sindacali e un mutamento dei rapporti con le aziende dell’indotto.

Un primo sintomo, che all’epoca fece scalpore, si era già manifestato con l’elezione a Sindaco di Taranto di Giancarlo Cito. Un capopopolo locale  autocostruito con l’ausilio di un’emittente televisiva di proprietà, che ha prodotto uno sconvolgimento degli equilibri locali e innestato un progressivo degrado della amministrazione pubblica. Dieci anni dopo culminerà nella dichiarazione di dissesto finanziario del Comune di Taranto. Nel frattempo si sono rivelati di scarsa efficacia tutti i tentativi di stimolare  processi di sviluppo alternativi, basati su programmi di reindustrializzazione e di incentivazione di nuova imprenditoria finalizzati a diversificare le produzioni del territorio.

Al mutamento delle aspettative della comunità  locale, e alla progressiva disaffezione verso i destini dell’Ilva, gestita da un imprenditore scarsamente interessato alle ricadute sociali delle scelte generate dalla proprietà, si accompagna la crescita delle rivendicazioni risarcitorie verso lo Stato da parte di un territorio ferito e privo di identità. La vicenda ambientale, il ruolo prevaricante assunto dalla magistratura rispetto alle decisioni politiche e imprenditoriali, e il consenso elettorale al M5S, la forza che rivendicava la chiusura degli impianti siderurgici,  devono essere lette come sintomi evidenti dell’avvenuto mutamento del rapporto tra l’azienda e la città.

Il ruolo della siderurgia nel nostro Paese rimane una grande questione nazionale, ma non sembra essere questa la preoccupazione dominante della popolazione tarantina. Non fatevi travisare dalla polemica politica, tutta rivolta a scaricare le colpe alla ricerca del soggetto che rimane con il cerino in mano. E che rende impraticabile la ricerca di un ragionevole compromesso tra la questione occupazionale e quella ambientale.

Nelle condizioni attuali non ci saranno investitori privati disponibili a mettere risorse vere per investimenti, in balia degli umori della magistratura, con l’obbligo di farsi carico di costi ambientali impossibili da ammortizzare, con volumi di produzione in riduzione ed eventuali incrementi della stessa  che si possono realizzare altrove in impianti già esistenti. Nelle attuali condizioni con il cerino acceso in mano è rimasto lo Stato, che dovrà farsi carico delle perdite, di trovare le risorse per le bonifiche ambientali, e dei costi sociali connessi alla perdita dell’occupazione.

Una specie di nazionalizzazione di risulta, con una gestione commissariale costretta a mantenere in vita un’azienda antieconomica, e alla disperata ricerca di improbabili nuovi investitori. Un esito che a parole tutti i principali attori dichiarano di voler scongiurare, salvo operare, molti di loro, per renderlo inevitabile.

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