La scelta di Arcelor Mittal che decide di ritirarsi dall’Ilva di Taranto fa emergere la distanza oramai insostenibile – e quindi estremamente pericolosa – che separa la dinamica decisionale del nostro sistema di governo dalle necessità degli interlocutori economici, quindi degli imprenditori e degli investitori.
Arcelor Mittal non è che uno dei tanti casi di uscita di un investitore multinazionale dal nostro Paese. Paolo Bricco sul Sole 24 Ore presenta l’elenco dei dossier oramai accumulati e la lista non è di poco peso. Ad Arcelor Mittal dobbiamo infatti aggiungervi la Whirlpool, la Unilever ed infine la stessa Fca che, attualmente, ha dimezzato gli impegni su Maserati e Alfa Romeo: “…oggi, il disimpegno è il punto di caduta di una tendenza di lungo periodo che ha visto ridurre i flussi di tecnologia e di competenze manageriali dall’estero verso le consociate del nostro Paese. Arrivano, quando rimangono ci credono meno e, a un certo punto, si disimpegnano”.
Parallelamente prosegue la fuoruscita di cervelli: “Le competenze in uscita dall’Italia verso l’estero sono state significative: tutta la reindustrializzazione delle fabbriche nordamericane è stata fatta con modelli manageriali, competenze tecniche e codici organizzativi provenienti dall’Italia: da Cassino e da Pomigliano d’Arco, da Mirafiori e da Melfi, piccole squadre di specialisti si sono trasferite al Jefferson North Assembly Plant di Detroit, a Toledo in Ohio o a Windsor in Canada”.
In questo come in altri casi si è sedimentata velocemente una miscela esplosiva nella quale, dopo le incursioni dei singoli procuratori della Repubblica, è arrivato il battage mediatico opportunamente alimentato dalle intercettazioni telefoniche, la salita sul podio di minoranze che hanno nei grandi temi morali il loro principale banco di attività ed infine – ma certamente decisiva – la costante rivedibilità delle decisioni prese da parte di compagini di governo eternamente fragili. Non è il primo caso: la vicenda Tav, vera e propria “storia infinita” della nostra seconda repubblica, costituisce oramai un caso da manuale.
Tuttavia questa volta l’intera dinamica presenta un’ulteriore fragilità, quella di un’alleanza di governo che tiene più alla tenuta della coalizione che alla soluzione del problema (si vedano a tal proposito le interviste del Sussidiario a Rocco Palombella della Uilm ed a Giulio Sapelli) Fare di tutto pur di evitare di andare alle elezioni anticipate e far vincere Salvini e la sua impresentabile Lega, vero e proprio museo degli orrori – o almeno così pare – è il miglior viatico per chi, dentro la multinazionale franco-indiana, spinga per un precipitoso ritiro: nulla è più pericoloso infatti che contrarre impegni con partner tanto assorbiti dai loro problemi interni.
Si muove così, in un gioco di rappresentazioni, quello che un tempo sarebbe forse stato un dibattito qualificato. C’è urgente bisogno di un ritorno di credibilità e di autorevolezza, di dati chiari e di leadership salde. La loro assenza rende ogni investimento in Italia un’avventura sempre più rischiosa e sempre meno sopportabile.
Il nostro attuale sistema di governance non solo non sa trattenere, ma attrae sempre meno e quando è dinanzi a delle decisioni non sa decidere, né rendersi credibile. Ed è questo, tra i tanti, il nostro limite peggiore, capace di dimezzare, fino ad azzerarle, le risorse che pure possediamo e che hanno fatto dell’Italia uno dei primi paesi industrializzati del mondo.
I danni che può produrre in termini di perdita di credibilità un governo che non sa decidere sono incalcolabili. È sua e sempre più sua la responsabilità di una crescita che si fa sempre più lontana, con un’intera generazione persa all’estero, dove non tarda ad essere apprezzata e riconosciuta. Ogni industria che va via, ogni imprenditore che prende la strada della vicina Austria, della Svizzera, della Francia – per non parlare dei paesi dell’Est – costituisce una miriade di posti di lavoro persi, l’estensione dell’assistenza ad un nucleo di disoccupati sempre più vasto, un mancato introito fiscale per i comuni e per lo Stato e un’ulteriore emigrazione di cervelli che non possono attendere all’infinito.
Il problema non è affatto la crisi economica. Come è stato dimostrato egregiamente da più parti – ma in modo particolare nelle mostre del Meeting di Rimini – l’Italia ha attraversato crisi ben peggiori di questa ed ha sempre trovato le risorse in termini di capitale umano, di capacità professionale e di volontà di crescita. Il problema è essenzialmente nella confusione che regna nel nostro sistema di governo e nell’inaffidabilità di ogni singola decisione. La tragedia l’hanno vissuta i nostri genitori e l’hanno superata con una grande lezione di civiltà. Noi siamo alla farsa ma rischiamo seriamente di restarci impantanati.