Com’è noto, il 31 gennaio è il termine ultimo che Ilva in amministrazione straordinaria e ArcelorMittal hanno per comunicare il loro accordo (anche col sindacato) al Tribunale di Milano. Se così non sarà, la stessa Procura si pronuncerà il 7 febbraio sul recesso di Mittal presentato a seguito della revoca dello scudo penale. A tal proposito, è circolato in queste ore il contenuto della memoria presentata da Ilva in amministrazione straordinaria: secondo i commissari, da parte di ArcelorMittal non vi è soltanto inadempimento contrattuale, ma si ravvisano anche dichiarazioni mendaci in sede giudiziaria. Tuttavia, e Parti vorrebbero entrambe evitare questo pronunciamento, ma la strada che porta all’accordo è stretta e complessa.
Iniziamo col dire che ArcelorMittal e Governo, al di là dei loro silenzi, hanno raggiunto un’intesa di massima: l’esecutivo è disponibile a fare un investimento di prospettiva integrando l’area a caldo del sito di Taranto con due forni elettrici, in grado di produrre circa 2/2,5 milioni di tonnellate di acciaio. Governo e Mittal sono anche d’accordo che lo Stato italiano sarà così azionista di ArcelorMittal Italia in una percentuale consistente (30-40%).
L’azienda vorrebbe stabilizzare la sua produzione – attraverso gli altiforni 1, 2 e 4 – attorno alle 4 milioni di tonnellate. Non a caso, lunedì Mittal ha convocato i sindacati annunciando il fermo immediato dell’Acciaieria 1 di Taranto e una riduzione di personale da 477 a 227 unità, determinando la collocazione di 250 lavoratori in Cig. La previsione di fermata è di circa 2 mesi, fino al 31 marzo 2020. Fim, Fiom e Uilm riferiscono che – secondo ArcelorMittal – i nuovi assetti produttivi sono dovuti a “uno scarso approvvigionamento di materie prime e all’attuale capacità produttiva legata alle commesse”.
Per la crisi di mercato, ArcelorMittal lo scorso anno ha prodotto circa 4,5 milioni di tonnellate di acciaio e non i 6 milioni per cui ha l’autorizzazione a produrre. A causa della crisi, infine, dallo scorso luglio poco più di 1.200 lavoratori, su 8.200 in forza allo stabilimento di Taranto, sono in cassa integrazione ordinaria, che a fine dicembre è stata rinnovata per altre 13 settimane anche in assenza di accordo sindacale.
ArcelorMittal sta giocando una partita all’attacco: come ha comunicato tempo addietro, vorrebbe cassa-integrare 5.000 lavoratori. Sono stati anche disdettati tutti i contratti integrativi, anche se poi reintrodotti. In ultimo, ArcelorMittal ha continuato ad assumere lavoratori in posizioni apicali senza pescare dalla cassa integrazione. Sono evidenti azioni di disturbo, per mettere in difficoltà il sindacato. Si preannuncia quindi una vertenza molto dura, ma lo scontro col sindacato sarà calmierato dalla proposta che farà il Governo, ovvero di integrare la produzione con i due forni elettrici.
L’intenzione dell’esecutivo è quella di portare la produzione a 8 milioni di tonnellate entro il 2023. La cigs accompagnerà questa fase transitoria, ma il numero di lavoratori coinvolti dipenderà dalle evoluzioni della trattativa Mittal-sindacato. Se questo fosse il finale, considerando da dove si è partiti – dal recesso di ArcelorMittal in Tribunale – sarebbe un buon punto di approdo. Tra qualche giorno ne sapremo di più.
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