Nelle ultime ore, la magistratura pare essersi impossessata del caso Ilva. Dopo che Arcelor Mittal ha depositato l’atto di citazione per il recesso del contratto che ha con lo Stato italiano presso il Tribunale di Milano e il ricorso d’urgenza che ne è seguito da parte dei commissari Ilva, la medesima Procura ha aperto un’inchiesta senza indagati, né ipotesi di reato: l’obiettivo è vederci chiaro nella rescissione del contratto visto il “preminente interesse pubblico in campo”.



È stato poi il turno della Procura di Taranto che – dopo un durissimo esposto presentato dai commissari in cui Arcelor Mittal viene accusata di aver pianificato da tempo la sua exit strategy e di voler arrecare il maggior danno possibile alla produzione siderurgica nazionale – ha aperto un fascicolo d’indagine contro ignoti per “fatti e comportamenti inerenti al rapporto contrattuale con ArcelorMittal, lesivi dell’economia nazionale”.



Venerdì scorso, nel mentre, Governo e sindacati si sono incontrati con l’azienda al Ministero dello Sviluppo economico: l’amministratore delegato Lucia Morselli ha ribadito l’intenzione di recedere dagli accordi a causa della revoca dello scudo penale e che il 4 dicembre Arcelor Mittal lascerà l’ex Ilva. È utile ricordare che, circa il programma di spegnimento degli altiforni, l’azienda ha scritto a Governo e Istituzioni locali che “ogni decisione spetterà unicamente alle Società Concedenti”.

Altro elemento utile per capire cosa sta succedendo: sabato si è saputo dell’investimento di Arcelor Mittal di 6 miliardi di euro per un’acciaieria in India in cui si stimano una produzione di 10 milioni di tonnellate di acciaio e 4.000 lavoratori a fronte della produzione italiana di 4,5 milioni di tonnellate e 10 mila lavoratori (considerando quelli attualmente in cassa integrazione).



Quindi: Arcelor Mittal ha deciso di lasciare l’Italia per investire in India? Anzitutto, sull’affare indiano Mittal lavorava da due anni. Taranto è sito industriale di altissimo livello da un punto di vista strategico. Il sig. Lakshmi Mittal – che senza la revoca dello scudo penale non aveva possibilità di ritirarsi dagli accordi con lo Stato italiano – sta aspettando una proposta dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. E la vaglierà. La situazione è difficile e complessa, ma l’esito non è per nulla scontato, cosa di cui sembrano invece convinti molti cronisti che hanno già annunciato la fine della gestione Mittal a Taranto.

Nel frattempo, lo scudo penale sarà reintrodotto. L’altoforno 2 è sotto sequestro da parte della magistratura perché non a norma ed entro il 13 dicembre, salvo proroghe, rischia lo spegnimento. Spegnere gli alfiforni è operazione che ne mette in dubbio la tenuta e la successiva riaccensione. Se il 4 dicembre Mittal lasciasse, a quel punto sarebbero i commissari a trovarsi senza protezione. La reintroduzione dello scudo è il primo passo per riavviare il negoziato con Mittal. Come può finire questa vicenda è difficile dirlo perché, di giorno in giorno, la realtà sta superando di molto la fantasia.

Un paio di considerazioni però possiamo farle: la revoca dello scudo penale è un’azione dissennata che mette in seria difficoltà i lavoratori e i loro rappresentanti. Quando lo Stato non è più attore garante di impresa e lavoro – e delle loro intese – chi ci perde è sempre il lavoro. Oltre lo scudo, conditio sine qua non per accordarsi ora con Mittal è una riorganizzazione che significa riduzione dei livelli occupazionali: l’azienda dice 5.000 esuberi, potrebbero essere meno, ma da qui bisogna passare. Le soluzioni a questa ristrutturazione possono essere diverse – una parte dei lavoratori potrebbe andare in carico all’Ilva pubblica o potrebbe nascere una società nuova -, ma Mittal senza la riduzione dei livelli occupazionali non tornerà indietro.

Qualsiasi piano B di cui si sta parlando in queste ore – in particolare l’opzione cinese Jingye, protagonista del salvataggio di British Steel in UK – pare avventata. In primis, bisogna evitare la fuga di Mittal: ciò significherebbe compromettere il portafoglio clienti di Ilva; in secondo luogo, qualsiasi nuovo pretendente giocherebbe al ribasso. Anche in questo caso, l’accordo con Mittal è la soluzione migliore. Vi sono poi 150 imprese in difficoltà che vantano crediti da Mittal per 200 milioni di euro, significa 6.000 lavoratori dell’indotto a rischio.

Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha parlato ieri, sulle pagine de Il Sole 24 Ore, di “area a caldo nel breve periodo e poi decarbonizzazione”. Può certamente essere impostato un percorso come questo, ma finalmente anche al Governo è chiaro che uno stabilimento a ciclo integrale non può essere decarbonizzato dall’oggi al domani. E, anche in questo caso, serve accordarsi con Arcelor Mittal: l’attuale piano industriale non prevede la decarbonizzazione dell’impianto. In sintesi, è difficile immaginare un futuro prossimo di Ilva senza Arcelor Mittal.

Twitter: @sabella_thinkin

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