ArcelorMittal annuncia l’addio all’Ilva. Con una lettera, ha chiesto ai commissari straordinari di “assumersi la responsabilità per le operazioni e i dipendenti entro 30 giorni”, manifestando così la volontà di rescindere l’accordo per l’affitto con acquisizione delle attività di Ilva e di alcune controllate acquisite in base all’accordo siglato il 31 ottobre. A giustificare il recesso sarebbero le difficoltà legate all’incertezza giuridica (lo stop allo scudo penale) e operativa (i provvedimenti del Tribunale penale di Taranto, che obbligano i commissari straordinari a completare alcune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019, “termine che gli stessi commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare”). Il Governo ha subito convocato un vertice al ministero dello Sviluppo economico, mentre le opposizioni chiedono che Conte venga a riferire sul caso davanti al Parlamento e i sindacati addossano la colpa di questa “fuga” proprio al governo giallo-rosso. Che cosa potrà accadere adesso? Che fine faranno il piano industriale e il piano ambientale per l’Ilva? Toccherà di nuovo allo Stato mettere mano alle casse pubbliche per intervenire sugli stabilimenti Ilva? Lo abbiamo chiesto al deputato leghista Edoardo Rixi, che commenta: “Il governo che aveva il coltello dalla parte del manico ha deciso di tenerlo dalla parte della lama. Così il prezzo più alto lo pagheranno sia la politica industriale italiana, che rinuncia di fatto ad avere una filiera dell’acciaio, sia i 13mila addetti che lavorano tra stabilimenti e indotto e a cascata le loro famiglie”.



ArcelorMittal ha annunciato l’intenzione di ritirarsi dall’acquisizione dell’Ilva. Che scenario si apre?

Sostanzialmente si aprono due scenari. Il primo: il governo decide di far rimanere ArcelorMittal, rivedendo tutti gli accordi, visto che Mittal ha denunciato praticamente tre violazioni da parte del governo italiano: il mancato mantenimento dello scudo penale, la mancata utilizzazione, che era invece prevista, di un forno e le pressioni nell’ultimo anno da parte di varie forze politiche, a livello nazionale e locale, per ridimensionare la capacità produttiva di Taranto. Questo però comporterà mantenere in Italia una società che a quel punto ridimensionerà gli investimenti e che ha già annunciato dai 5mila esuberi in su, con problemi occupazionali seri di lungo periodo.



E il secondo scenario?

In un momento in cui ArcelorMittal è desiderosa di lasciare l’Italia – in una congiuntura di crisi dell’acciaio, anziché ridimensionare le produzioni in Turchia, in Polonia o in Germania, Mittal potrebbe pensare di produrre in quei Paesi l’acciaio che dovrebbe produrre a Taranto – il governo potrebbe consentire a Mittal di “mollare” definitivamente non solo Taranto, ma anche Genova e Novi Ligure. A quel punto, come vorrebbe il M5s, si dovrebbe procedere a una statalizzazione, che però costerebbe al nostro Paese un miliardo circa all’anno per i prossimi tre anni, solo per rimettere l’azienda sul mercato.



Se ArcelorMittal lasciasse l’Italia, si porterebbe via anche tutti i clienti di Taranto…

Sì, l’abbandono di Mittal creerebbe qualche problema alle maestranze, bisognerebbe in ogni caso attivare almeno una cassa integrazione ordinaria, perché i contratti stipulati negli ultimi mesi prevedono che, qualora non si produca più a Taranto, ArcelorMittal possa comunque utilizzare altri impianti all’estero per rifornire la filiera di Ilva. Ecco, il tema vero è che il governo ha regalato a Mittal tutti i clienti di Ilva.

Che fine potrebbero fare il piano industriale e il piano di bonifica?

Il piano industriale o viene fatto con i soldi pubblici o non viene fatto. Si rischia di avere una Bagnoli alla decima potenza. Con il rischio in prospettiva, se gli impianti fossero abbandonati a loro stessi, di sversamenti anche importanti in mare: senza gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti di depurazione in breve tempo tutto il percolato finirebbe nelle falde, mettendo a forte rischio ogni ipotesi di bonifica. Anche qui il governo dovrebbe investire vari miliardi di euro non tanto per bonificare il sito, che sarebbe difficile bonificare senza una convenienza di carattere economico, ma almeno per la messa in sicurezza dell’impianto.

L’unica alternativa, dunque, è che torni in campo lo Stato o esiste ancora la possibilità di una cordata in grado di rilevare gli impianti?

Anche qui c’è una situazione abbastanza strana. L’altra cordata non solo era capitanata dalla stessa manager che adesso è diventata presidente di ArcelorMittal Italia, ma aveva pure fatto un’offerta molto più bassa anche in termini occupazionali. A mio avviso, bisognerebbe ripartire con un nuovo bando. Ma gli impianti non possono essere chiusi, bisogna quindi capire chi continuerà a tenere aperto l’impianto, cosa verrà prodotto e a chi venderà, perché i clienti di Ilva oggi sono diventati di ArcelorMittal. L’unico dato certo è che questo governo si è dimostrato il peggiore nella gestione industriale, soprattutto per il ciclo dell’acciaio: l’Italia sarà l’unico Paese del G-8 a importare più del 50% di acciaio dall’estero.

C’è il rischio che si arrivi allo spegnimento dell’altoforno numero 2?

Un altoforno non si può spegnere. Una volta spento, non si può più riaccendere. Bisogna ricostruirlo da capo e aumenterebbero a dismisura i costi, perché un conto è ristrutturare un impianto funzionante, portandolo a un revamping costante nel tempo, un altro è chiudere un impianto, smantellarlo, bonificarlo e poi ricostruirlo. Oltre tutto su un’area industriale ex siderurgica, dove ci possono andare pochissime altre attività. L’operazione di bonifica e messa in sicurezza costa infatti tantissimo.

La decisione di ArcelorMittal avrà ripercussioni anche sugli altri stabilimenti Ilva di Genova e Novi Ligure?

Certo, perché l’altro errore del governo è stato quello di non separare gli stabilimenti. Ilva produce il 70% del proprio reddito tra Genova e Novi Ligure, che potrebbero continuare a funzionare senza problemi, anche non riforniti da Taranto. Il problema è che l’accordo è unico e Mittal non ci pensa minimamente a continuare a perdere 2 milioni di euro al giorno a Taranto per tenere aperti gli altri due. Siamo in presenza di una miopia di politica industriale senza precedenti. E stiamo parlando di un danno ambientale senza precedenti nella storia del nostro Paese.

Perché?

In un momento di crisi abbiamo fatto un regalo a una multinazionale, offrendole una scusa cui aggrapparsi per non fare più gli investimenti che si era impegnata a fare due anni fa. Questo governo non so proprio di chi faccia gli interessi, di certo non del Paese e dell’industria italiana.

Il governo M5s-Pd come ha gestito il nodo dello scudo penale? Ha in pratica offerto un assist o un alibi alla decisione di ArcelorMittal?

Assolutamente sì. Ma questo purtroppo i Cinquestelle l’avevano già fatto nel governo con noi. Uno dei motivi che ci hanno portato alla rottura è stata proprio la gestione di questa crisi, che si era in realtà risolta all’inizio del governo giallo-verde con la firma da parte di Di Maio e Mittal di un piano di revamping industriale che non aveva precedenti nel Paese, anzi che avrebbe portato Taranto a essere una delle tre acciaierie migliori d’Europa e tra le meno impattanti. Invece, sei mesi dopo, si è arrivati prima a togliere lo scudo penale, poi a provare a reinserirlo, altrimenti Ilva sarebbe stata chiusa da settembre, infine con il governo giallo-fucsia a toglierlo di nuovo. Un impazzimento generale.

ArcelorMittal non a caso dice: in meno di un anno avete cambiato posizione tre volte e quindi non siete affidabili come Paese…

Sullo scudo penale è lecito avere opinioni diverse, ritengo però sia giusto che uno mentre lavora non possa essere incolpato di quello che ha fatto chi lo ha preceduto. Anche perché l’Ilva ad Arcelor gliel’ha consegnata lo Stato: avrebbe dovuto farlo nel pieno rispetto delle norme, invece ha consegnato impianti che non erano a norma per mille aspetti. Detto questo, il problema vero è la capacità che hanno pochi deputati di bloccare l’intero settore industriale italiano, perché dall’automotive alle nuove tecnologie tutto passa dall’acciaio. Non avere l’acciaio vuol dire essere legati in futuro alle fluttuazioni dei prezzi di mercato per gli approvvigionamenti, mettendo in discussione tutta la filiera industriale italiana.

Il M5s raggiunge così l’obiettivo che quando era al governo con la Lega non ha potuto perseguire, cioè chiudere l’Ilva. Perché Pd e Renzi si sono arresi senza colpo ferire?

Il Pd credo che ormai sia succube dei Cinquestelle, vuole a tutti i costi quell’alleanza a livello territoriale pr cercare di vincere in Emilia-Romagna e in Toscana e ritiene che gestire il potere, essere al governo sia la cosa più importante a prescindere da quel che si fa. Renzi invece sta solo aspettando la partita delle nomine nelle grandi aziende di Stato dove farà pesare le proprie scelte. Così nell’immediato sono entrambi disposti a sacrificare qualsiasi cosa, oggi l’Ilva, domani l’Alitalia.

Il governo, dopo aver convocato d’urgenza un vertice al Mise fra diversi ministri, ha dichiarato che non ci sono i presupposti giuridici per recedere dal contratto e che farà di tutto per impedire ad Arcelor di abbandonare l’Ilva. Che ne pensa?

Il governo ha ben poco da fare. Non avendo messo in Legge di bilancio le risorse per ristatalizzare l’Ilva, cioè il piano B di cui abbiamo parlato all’inizio e l’unico che poteva tutelare i lavoratori, non può farlo, perché dovrebbe ammettere che si crea nella manovra un buco di un miliardo di euro all’anno per tre anni. Chiederà ad ArcelorMittal di rimanere, ma non credo sarà una soluzione indolore per i lavoratori. Il governo aveva il coltello dalla parte del manico, ha deciso di tenerlo dalla parte della lama. Non è mai una posizione intelligente.

In questo governo, secondo lei, non si vede chi abbia a cuore la difesa dell’industria italiana?

Né dell’industria né degli operai, che pagheranno il prezzo maggiore. Attorno all’Ilva gravitano più di 13mila addetti, cioè 13mila famiglie, che corrono il rischio di subire a cascata le scelte di un governo maldestro e incapace di avere una visione.

(Marco Biscella)

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